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Festival del film di Roma - My Italian Secret

Pubblicato il 16 ottobre 2014 da Alessandro Izzi

VOTO:

Festival del film di Roma - My Italian Secret

Il bene si fa, ma non si dice. È piuttosto un segreto dolce, di quelli che servono a scaldarci il cuore come un cordiale quando fuori, il vento dei ricordi tristi e dei tempi peggiori, abbassa la temperatura e cerca la notte.
Parlare delle proprie buone azioni è come cercare una posizione di superiorità rispetto al prossimo, come un chiedere indietro quel gesto di umanità che a tutta prima avevamo dato in maniera così gratuita. Perché ammettere di essere stati buoni è, in fondo, un cedere improvviso all’egoismo.

E poi, in fondo, una buona azione è così intrinsecamente banale, così piccola, così… sciocchina! È tanto elementare che il più delle volte ci resta sulle dita o sulla punta della lingua, incapace a concretizzarsi, bloccata sulla soglia della sola intenzione che ha paura di farsi fatto. Compierla ci farebbe sentire irrimediabilmente infantili. E come potremmo mai accettare di ritornare bambini fosse pure per la vecchietta che deve attraversare la strada?

Eppure la buona azione, per quanto piccola, in certe congiunture storiche può salvare una vita.
Chiudere o tenere aperta una porta durante un rastrellamento, può significare la salvezza di chi cerca un nascondiglio. Offrire un letto e un piatto di minestra a chi fugge nel buio può essere quello spiraglio di luce che indica la strada per uscire dalla notte.

In Italia, sotto le leggi razziali, quando cominciarono i rastrellamenti degli ebrei e le deportazioni, furono molti quelli che del grigio tentarono di essere le sfumature più chiare. E le loro azioni avevano la stessa banalità della luce del sole in un cielo senza nuvole.
Dirli eroi sarebbe retorico. Farli angeli, eccessivo. Semplicemente, in quel momento che fa la differenza, si ricordarono chi erano e furono bambini in un tempo in cui essere adulti significava la morte di qualcun altro.
Per questo il momento più toccante, quello che maggiormente si scolpisce nel cuore dello spettatore di My italian secret, documentario che intreccia la storia di Bartali con quella di alcune famiglie ebree che fuggivano dall’orrore nazista, è quella in cui vediamo il ciclista ormai anziano rifiutare ogni rievocazione del proprio passato nella resistenza.
Sentire la sua voce roca dire: «Di questo non parlo!» è un toccasana in un mondo come il nostro di proclami elettorali e di un indifferenziato blabla egocentrato. Una frase semplice che nasce da una considerazione semplice: che forse gli eroi sono gli altri, quelli che sono morti, quelli che sono stati feriti, mentre lui, in fondo, è solo andato in bicicletta, salvando quasi per caso ottocento ebrei dai campi di sterminio.

My italian secret è un documentario di impostazione abbastanza classica. Sceglie alcuni sopravvissuti e li segue mentre viaggiano nei luoghi dei loro ricordi personali affinché si facciano Memoria.
Ricostruisce eventi attraverso squarci di interviste e aspetta paziente le epifanie dei ricordi improvvisi o del riconoscersi inaspettato nel bianco e nero di una vecchia fotografia. Qua e là gioca a ricostruire alcune scene con attori nella consapevolezza che troppo delle deportazioni italiane è restato fuori dagli archivi nazisti che pure erano solerti nel filmare e fotografare tante fasi del processo di sterminio. E sono, forse, proprio questi i momenti più deboli di un’operazione che ha il suo merito maggiore nel fissare lo sguardo nelle piccole cose, nelle buone azioni di tante persone normali che salvarono, magari senza neanche accorgersene veramente, tante vite. E oltre a raccontarci le corse in bici di Bartali, centra l’attenzione anche sulle gesta del dottor Borromeo che salvò vite inventando addirittura una malattia contagiosissima.

Il rischio, più che l’agiografia, è scivolare nel dolciastro, permettendo un po’ troppo spesso allo spettatore di dimenticare che l’Italia, paese di nobili eroismi, è stato anche dove furono firmate le leggi razziali. E che per tanti che aiutarono ce ne furono altri che invece denunciarono.
Il documentario di Oren Jacoby è bello, ma ha la sfortuna di cantare un paese che troppo si abbevera del ricordo dei suoi santi e troppo rifiuta serie ammissioni di colpa. Fingiamo così di non accorgerci di come il ritratto di un giusto finisca sporcato dalle troppe ombre che ci stanno davanti agli occhi come la trave che proclama di essere pagliuzza.
Troppo fatalmente continuiamo a far finta di non capire che quel Bartali che abbiamo avuto ieri dobbiamo meritarcelo oggi. Ricordando il passato nella sua interezza scomoda e dolorosa, smettendo finalmente di ripeterne gli errori e ritrovando quella fanciullezza dell’essere buoni che non ha bisogno di parlare, ma solo di fare.
Solo allora avremo abbastanza occhi per guardare bene un documentario come questo.


CAST & CREDITS

(My italian secret); Regia e sceneggiatura: Oren Jacoby; fotografia: Bob Richman; montaggio: Deborah Peretz; musica: Joel Goodman; voci: Isabella Rossellini (Voce Narrante), Robert Loggia (Gino Bartali); produzione: Oren Jacoby; origine: USA, 2014; durata: 92’


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