Festival del Film di Roma 2014 - La prochaine fois je viserai le coeur
Forse la chiave di lettura più intrigante di La prochaine fois je viserai le coeur (La prossima volta mirerò al cuore) arriva addirittura a fine della proiezione, proprio sui titoli di coda, quando la maggior parte del pubblico già comincia ad alzarsi con una certa inquietudine che scorre sotto pelle e che ti sembra strana se consideri che nasce all’interno di un film, in fondo, di genere.
Qui, mentre scorrono i nomi delle persone che hanno contributo alla realizzazione del film, l’uso in colonna sonora di Old Abraham Brown dai Friday afternoons di Benjamin Britten apre, accompagnandoci fuori del mondo del film, un’improvvisa voragine di senso.
Il brano, infatti, composto per coro di voci bianche con accompagnamento di pianoforte è uno dei momenti più disturbanti di tutta la produzione musicale del sommo autore inglese. In esso il testo elementare che racconta di un signore inquietante che non si vedrà mai più, sottoposto ad una serie di variazioni polifoniche via via sempre più complesse, trova la sua ragion d’essere nell’accostamento di due elementi inconciliabili: la levità delle voci dei ragazzi, che per Britten sono sempre state sinonimo di innocenza, e il clima scuro di favola cupa.
Il vecchio signor Brown rappresenta in un certo senso il mostro, l’uomo nero che si avvicina con passo scuro vicino ai bambini, pronto a mangiarne l’anima con la sua sola presenza e la canzone è una filastrocca che, lungi dall’esorcizzarne la presenza, sembra evocarlo come in un rito di magia arcana.
In fondo questo rapporto con il mostro che sembra nascere proprio dove l’innocenza rivendica la sua dimora è il perfetto correlativo musicale di un film che, nel raccontare la storia vera di un killer che uccideva ragazze scelte a caso, pare cercare il suo punto di vista privilegiato nello spazio ambiguo tra il rifiuto per le azioni dell’uomo e l’empatia straniata per la sofferenza che egli prova tuttavia nel compierle.
Non siamo, insomma, dalla parti di un Silenzio degli innocenti dove il mostro è un rimosso distante e disturbante, ambiguo e subdolo che vive nel sottosuolo della coscienza della cultura occidentale. Piuttosto, qui, il mostro è il vicino di casa, quello che a vederlo non diresti mai possa macchiarsi di colpe così atroci, un simpatico signor Brown, insomma, che può apparire un poco strano in certi modi di fare, ma non per questo ti mette paura ad incontrarlo per strada.
Oltretutto di mestiere, questo assassino, fa addirittura il gendarme e in un certo senso ti ispira fiducia anche quando ti prende in macchina mentre fai l’autostop e ti fa vedere la pistola d’ordinanza giusto per fare conversazione.
Addirittura, mentre la polizia brancola nel buio, gli viene assegnato il compito di andare in giro, casa per casa, con un identikit realizzato su indicazioni di una delle sue vittime miracolosamente scampata alla morte e nessuno sembra capace di riconoscere in lui l’uomo raffigurato.
La regia asciutta e misurata di Cédric Anger segue passo passo le gesta del suo protagonista. Non c’è momento che egli non sia in qualche modo al centro dell’inquadratura e non mancano anche vere e proprie soggettive che ci obbligano a guardare il mondo attraverso i suoi occhi.
Ragion per cui, pur non potendo aderire col personaggio nei momenti dei delitti siamo, però, in certa misura portati ad una certa empatia quando abbiamo l’impressione che la spinta omicida sia qualcosa che, in fondo, subisce anche lui, quando sopraggiunge in noi l’idea che la sua sia una patologia incurabile e pericolosa.
E allora ci sorprende una certa simpatia nel vedere i suoi tentativi maldestri con la donna delle pulizie o nel percepire un certo affetto nel suo rapporto con il fratello più piccolo. Pericolosi segni di normalità in una situazione anormale.
Questo statuto ambiguo della rappresentazione ovviamente dipende dal fatto che noi abbiamo delle vittime la stessa percezione che ne ha lui. Esse non assumono nel film quell’aura sacrale che invoca l’assoluta immedesimazione da parte del pubblico, ma figure di passaggio, che non abbiamo mai il tempo di conoscere e per cui non riusciamo a preoccuparci fino in fondo. Sono ragazze spaventate per un tempo troppo breve e ci resta viscida l’impressione che provi un po’ di pena anche lui per loro mentre le uccide.
Il film sfiora così un tema profondo e doloroso implicito nella nostra condizione di spettatori, ma non porta alle estreme conseguenze quello che avrebbe potuto essere un discorso anche profondo sui limiti aleatori che separano la nostra percezione di categorie come bene e male, giusto e sbagliato. Piuttosto preferisce rimanere all’interno di una confezione accurata, dai ritmi dilatati e dal sapore quasi da fiaba oscura di lupi e bambine cui l’interpretazione di Guillame Canet dona decisamente un valore aggiunto.
Ma quell’ambiguità evocata dalle note di Britten è destinata a rimanere a lungo solo per lo spettatore che decide di fermarsi ad ascoltare.
(La prochaine fois je viserai le coeur); Regia e sceneggiatura: Cédric Anger; fotografia: Thomas Hardmeier; montaggio: Julien Leloup; musica: Grégoire Hetzel; interpreti: Guillaume Canet, Ana Girardot, Jean-Yves Berteloot, Alice de Lencquesaing, Nicolas Ronchi, Franck Andrieux, Nicolas Carpentier; produzione: Alain Attal, Thomas Klotz; origine: Francia, 2014; durata: 111’