Festival del film di Roma 2014 - Masterclass with Stephen Daldry

Mai dire ai ragazzi quello che devono o non devono fare. Questo, in sintesi, il senso del lavoro di Stephen Daldry nei suoi film dedicati al mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, così come emerge dalla Masterclass aperta all’interno di questa edizione del Festival Internazionale del Film di Roma.
I ragazzi, infatti, vivono in un mondo tutto loro, aperto più del nostro al bisogno di sincerità, novità e freschezza. Per raccontarlo bisogna porre la macchina da presa alla loro altezza, accettando il rischio di renderli parte integrante del processo di scrittura del film.
In fondo non si può mai veramente realizzare un film “sugli” adolescenti e la vera sfida, per un regista che davvero voglia essere intellettualmente onesto, è quella di accettare di girare un film “con” loro, ponendosi in modalità di ascolto, assecondando le loro esigenze, rimanendo sempre pronti a rivoluzionare la scaletta delle riprese o anche gli elementi della sceneggiatura se questo serve ad entrare nei loro occhi e nei loro sogni.
Nel realizzare Trash il problema principale era proprio quello di avere a che fare non solo con attori non protagonisti, ma soprattutto con ragazzi che avevano avute esperienze di vita che dovevano dettare la direzione del film.
“Da inglese non potevo dire loro come comportarsi, cosa fare e cosa pensare perché quello è il loro mondo, non il mio” e la macchina da presa può entrare solo in punta di piedi quando mette il naso oltre la porta di una casa sconosciuta.
Forse la lezione più bella di questa Masterclass è proprio questa. Questo rispetto per l’adolescenza che impone flessibilità alla macchina del cinema, questo bisogno forte di stare insieme senza rinunciare all’esigenza di essere guida. Il film diventa così, incredibilmente, un processo educativo speculare in cui regista e ragazzi imparano e definiscono insieme le regole di una convivenza che ha come obiettivo comune il racconto di una storia.
“Perché questo film è il loro film. Sul set noi li ascoltavamo, chiedevamo il loro parere sul senso delle scene e se qualcosa non era credibile per loro significava che non andava fatta, che doveva essere cambiata”.
Soprattutto quello che emerge è, incredibile a dirsi per un film di grossa produzione, il rispetto non solo delle idee dei ragazzi, ma anche dei loro tempi.
“Capitava certi giorni che i ragazzi si presentassero sul set senza avere voglia di girare. O che non si presentassero affatto. E allora bisognava improvvisare”, trovare un modo per girare una scena senza forzarli, ma anche senza dare l’impressione che ogni loro capriccio doveva essere assecondato.
È capitato così, per esempio, nella scena della tana di Rato, quando i bambini discutono tra loro davanti a un videogame che era lì per caso, “ma quando i ragazzi l’hanno visto non c’è stato modo per non farli giocare” e così, anche se la scena era diversa, “abbiamo improvvisato una scena nuova con una discussione intorno al videogame”.
Certo il primo shock dei bambini, come per tutti gli attori non protagonisti, era doversi adeguare a degli orari a delle regole. “Regole che non gli erano mai state date dalle famiglie o dalla realtà culturale nella quale vivevano”. Ed era particolarmente frustrante, ad esempio, ripetere una scena magari solo per cambiare la posizione di una macchina da presa “col risultato che non ripetevano mai veramente la stessa scena”.
Certo alcune scene andavano coreografate meglio di altre, come le scene di corsa o le scene con i salti, le jumping scene, ma anche lì se i ragazzi arrivavano sul set stanchi o un po’ svogliati, bisognava trovare qualche altra cosa da fare, inventarsi qualche soluzione per mandare avanti la produzione senza obbligare gli attori a fare qualcosa in cui non riuscivano a credere.
Il tutto sempre con fermezza, tenendo il punto perché “se dici ai ragazzi che se non hanno voglia possono tornare a casa” non può essere un trucco per spingerli a lavorare “poi devi farlo per davvero”.
Sicché, incredibilmente, la macchina cinema, quando piegata in questo senso, finisce per avere anche una specie di valore educativo. Una cosa sorprendente per un’industria che pensa prima di tutto all’incasso.
La cosa davvero sorprendente di tutta la situazione è stata scoprire “come in questi ragazzi ci sia tanta gioia, tanto senso di giustizia sociale, tanto amore per il proprio paese. Io vengo dall’Inghilterra, un mondo più cinico e più senza speranza”. Vedere questi ragazzi così pieni di gioia e di voglia di vivere è una rivelazione che scuote il nostro connaturato pessimismo. Proprio loro che avrebbero tutti i motivi per stare male, non per questo smettono di sorridere e di continuare a sognare.
“Se chiedete loro se veramente pensano di poter cambiare il mondo, loro rispondono di sì, perché ci credono veramente” e il rischio della pellicola è accollarsi questo incredibile ottimismo lasciandolo respirare all’interno di un film che, pur nel suo realismo a tratti crudo, non rinuncia ad essere “semplicemente una favola”.
Certo questa formula vale solo per Trash. Ogni film, per Daldry è un’avventura a se stante che “nasce prima di tutto a contatto con la storia e con i personaggi”. Inutile, quindi, cercare di renderla un paradigma, ma è stata un’avventura degna di essere vissuta fino in fondo.
E se resta in noi ancora il tipico scetticismo occidentale, non ci resta che andare in Brasile e chiedere direttamente a questi ragazzi, guardandoli dritti nei loro occhi pieni di fiducia, “se davvero avrebbero voluto che i loro personaggi morissero. Se era questo che volevano!”
La risposta potrebbe scalfire molte delle nostre certezze.
