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Festival del Film di Roma - Conferenza stampa con Christian Petzold

Pubblicato il 22 ottobre 2014 da Alessandro Izzi


Festival del Film di Roma - Conferenza stampa con Christian Petzold

Non c’è Nina Hoss alla conferenza stampa di Phoenix. Ritardi dei voli aerei le hanno impedito di essere presente, ma ci sarà, invece, questa sera per il red carpet del film.
«Mi lasciano sempre solo» scherza Christian Petzold «Ora per uno sciopero, ora per un ritardo, resta il fatto che alla fine rimango sempre e solo io in queste occasioni!» ed è una battuta che da subito definisce il tono della conversazione che andrà avanti seria, ma disimpegnata, informale e con spazio anche per altri giochi «Gesticolo. Ho cominciato a gesticolare. Questa cosa di voi italiani l’ho imparata subito!»

La storia è tratta da un romanzo francese. Ma ci sono altre fonti su cui si ha potuto basarsi? Ha compiuto delle ricerche?

Sembra strano ma non sono molti i documenti di chi, sopravvissuto ai campi di sterminio è poi tornato a casa. Anche perché spesso non c’erano proprio case in cui tornare. Dopo il 1945, in Germania nessuno ha scritto una storia del proprio rientro. Primo Levi è uno dei pochi sopravvissuti che ha scritto della sua esperienza di ritorno, eppure nessuno in Germania ha ancora pensato di occuparsi di questa storia. Io e Harun Farocki volevamo colmare questo vuoto con Phoenix.

Dal momento che ha appena citato il grande regista Harun Farocki, che da poco ci ha lasciato, vorrebbe condividere con noi un suo ricordo?

Harun è stato un grande maestro e il mio più caro amico. Con lui ho scritto tutti i miei film. Molti credevano che, essendo lui un documentarista, fosse lui il tecnico mentre a me spettava il “romanzo”. O addirittura che lui si occupasse di tutta la parte strutturale mentre io ero il Rossellini che metteva la macchina da presa al posto giusto all’ultimo momento. Invece era vero il contrario: lui scriveva e fantasticava mentre io dovevo mettere in ordine i suoi pensieri.

Il film mette in fondo è anche una riflessione sul cinema dal momento che i personaggi arrivano a mettersi in scena in un gioco reciproco di accecamento. Come ha sviluppato questa idea?

Forse il fulcro del film è la scena che ha luogo nella cantina dove vive Johnny: Una scena che abbiamo girato in dodici giorni. Mi interessava particolarmente il corpo di Nina Hoss e come reagiva all’intera situazione. Ho voluto che il confronto tra l’uomo e la donna fosse come un ballo. Ho detto loro di farlo come se stessero eseguendo un tango, un passo avanti e un altro indietro. Nel girare questa scena è fondamentale l’asse degli sguardi che lega i due personaggi.

Il film porta automaticamente alla mente La donna che visse due volte di Hitchcock. Che ruolo ha questo film nella realizzazione di Phoenix? E quali altri film ha eventualmente mostrato alla troupe per aiutarla ad entrare nell’atmosfera che cercava?

Mi ricollego per un momento alla prima domanda che riguardava le fonti di riferimento per il film. Da un punto di vista cinematografico, e non storico, c’era un numero di Filmkritik che era dedicato a Vertigo. In questo numero Harun Farocki aveva scritto un saggio intitolato Scambio di donne. Devo aggiungere inoltre che Vertigo è un film che amo e odio al tempo stesso, a volte nel guardarlo mi viene proprio da vomitare. Oltretutto negli anni settanta era anche difficile da vedere perché Hitchcock, l’aveva ritirato dal mercato insieme ad altri film perché i diritti gli servivano per crearsi un fondo pensionistico. Quindi era anche molto difficile da vedere. Da un certo punto di vista è come se Phoenix fosse un Vertigo girato dal punto di vista di Kim Novak. Un personaggio che però sceglie la vita, un personaggio che sopravvive.
Ho mostrato numerosi film alla troupe dal momento che insieme dovevamo trovare il linguaggio del film. Uno di questi è stato Out of the Past (Le catene della colpa) di Jacques Tourner che ho mostrato in modo particolare al cameraman per via dell’uso delle luci presente nel film. In particolare la scelta di utilizzare due luci diverse per mostrare il riflesso del mondo negli occhi di una persona. Questa scelta è così piaciuta al cameraman che avrebbe voluto usare questo tipo di illuminazione anche per altre scene ed è stato difficile fargli capire che non si poteva mica utilizzarla sempre. Poi ho mostrato un film di Renoir, Partie de campagne (La scampagnata), perché era ambientato e girato poco prima dell’occupazione tedesca e aveva quel tipo di malinconia che volevo anche per il mio film. Poi ancora, Les Demoiselles de Rochefort, di Jacques Demy, anch’egli ebreo. Si tratta di un musical sull’attesa, un film dove si balla contro il fascismo, e la cosa triste è che noi in Germania non siamo più stati capaci di realizzare film del genere dopo la guerra perché gli intellettuali capaci di farlo erano tutti morti o emigrati. Poi, ancor più importante il film di Peter Lorre, Der Verlorene. Dicevo spesso al direttore della fotografia di come i maggiori cineasti tedeschi siano stati costretti a lavorare in America durante il nazismo e di come, nel farlo, portarono la luce del noir tedesco in America. Con Phoenix volevamo recuperare la luce esiliata del noir di Berlino. Per questo nel film ci sono zone buie e magari in alto finestre illuminate, zone luminose e altre buie e chiaroscuri.

Nel film è inoltre importantissimo il lavoro sul colore che in certi momenti riporta alla mente Fassbinder anche se lei supera e va oltre la lezione del regista di Maria Braun. Come ha lavorato col colore?

Bisogna partire da una considerazione: tutti i film sul dopoguerra in Germania sono in bianco e nero o con colori molto opachi. Probabilmente è una scelta voluta per creare una distanza non solo temporale. Eppure, nelle mie ricerche, sono incappato in un corto di appena due minuti del 1945. Si intitola Lost German Girl e se lo cercate lo trovate anche su Youtube. È stato girato dalle truppe di liberazione e vediamo una ragazza che corre verso la macchina da presa. Indossa un paio di pantaloni militari e una maglia tutta strappata dal momento che è stata violentata numerose volte. Questo documento è stato girato con pellicola Agfa color caratterizzata da colori molto forti, quasi artificiali. Credo di essermi molto ispirato a loro, e per questo motivo abbiamo scelto la pellicola che è calda e viva come la storia che volevamo raccontare. Ho poi scoperto che anche David Lynch ha visto questo corto e l’ha usato come spunto per Twin Peaks, nella scena della ragazza che è appena stata violentata e cammina sul ponte. Nel mio film il colore è fondamentale, specialmente il rosso che è così lucente. E ovviamente poi c’è Fassbinder che ha reso il colore e i movimenti di macchina così artificiali e belli.

Parlando di donne che sopravvivono, ce né però un’altra nel film che sceglie di morire, che si suicida. Ci può spiegare come mai queste due storie parallele?

Durante le mie ricerche ho lavorato molto sui lavori della Jewish Commission e poi ho letto alcuni testi di Hannah Arendt che pure parlava del problema dei sopravvissuti. Lì ho scoperto che molte persone che, come Lene, lavoravano per cercare sopravvissuti avevano così tanto a che fare con la morte che finirono per suicidarsi. Harun continuava a sostenere che c’era una specie di storia d’amore tra queste due donne, ma una di loro non poteva sostenere la pressione di essere sopravvissuta. Il suo suicidio, comunque, non è annunciato in nessun modo all’interno del film. Un qualsiasi script editor americano non l’avrebbe fatto mai e avrebbe insistito affinché venisse inserita almeno una scena nel film che preparasse la morte. Io, però, volevo che il suo suicidio lasciasse come un vuoto, doveva essere imprevisto. E così Nelly torna nella casa e scopre della morte di Lene in maniera del tutto inaspettata.

La musica ha un ruolo cruciale nel film, rappresenta in un certo senso il ritorno del rimosso, come ha lavorato a livello musicale?

Per me cantare insieme una canzone è sempre stato come un tornare a casa. Ed è per questo che il dramma di Nelly e Lene è, una volta tornate in Germania non riuscire a sopportare l’idea di cantare di nuovo in tedesco. Per il film abbiamo usato una canzone composta da Kurt Weill su testo di Brecht e realizzata durante l’esilio del compositore a Los Angeles. La canzone, Speak low, al di là della storia del musical, è importante proprio per il senso di nostalgia che trasmette e che era perfetto per la pellicola.


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