A pugni chiusi
Svedese, nato a Bogotà. Una vita “contro”. Un’adolescenza internazionale durante la quale approda a Roma dove vuole imparare a fare l’attore. Ci prova con il metodo Fersen, ma la miscela di Stanislavskij e la trance africana non lo convince. Per fortuna arriva Bellocchio, ed è la svolta. Con I pugni in tasca si cuce addosso un personaggio che non lo mollerà mai più. Maturerà con lui, e invecchierà con lui. Inizia così il racconto di un’intera vita, rivolto a una troupe che lo asseconda e lo segue sul fare del tramonto in una Roma marginale, parecchio fuori le mura, là dove una volta “era tutta campagna”. E ancora oggi, in fondo, quei prati brulli, quei ruderi industriali, sullo sfondo dei lontani e riconoscibili simboli dell’inutile futuro di una città che si presume eterna e del futuro sembra dunque non aver mai avuto bisogno, campeggiano come i resti preistorici di una campagna cittadina e violata, che si è ripresa i suoi silenzi e le sue luci. Gli è rimasta addosso, Roma, a Lou Castel, nonostante abbia vissuto molti anni altrove, specialmente a Parigi. Ma è Roma, e il successo conosciuto presto, insieme alla spavalderia della bellezza gelida e aggressiva del suo giovane volto di angelo caduto, che gli accese una mai spenta passione politica in difesa dei deboli, dei lavoratori, degli operai: decide di mollare il cinema disgustato dalle mollezze della vita borghese dei colleghi, e darsi alla militanza nelle fila del movimento operaio. In contrasto con la sua anima di attore, si mescola tra le masse di compagni, maoisti, studenti extraparlamentari, scende in Calabria, vorrebbe vivere in una porcilaia… Poi “l’arte” ha il sopravvento, e riprende a recitare nel cinema. Film di serie B, Spaghetti Western, Softcore, un ruolo ne Il Giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica: posa da figo per fotografie che definisce “fasciste”, incontra un Fassbinder agli inizi di carriera, dolce, cortese, che lo vuole nel cast di Attenzione alla puttana santa. In tasca gli piovono soldi che ricicla in produzioni cinematografiche scadenti ma di cassetta, e forse per finanziare i primi focolai di ribellione sociale che sfoceranno nel terrorismo. Viene espulso dall’Italia. “Una grazia”, dice. In Francia e in Spagna può finalmente tornare a militare seriamente nell’estrema sinistra, e sparare su Scola, Antonioni, e tutti quei registi lontani, a parer suo, anni luce dagli operai e dalla povera gente. Nel ’74 rientra in Italia, ubriaco di celebrità, violento con le donne, ricercatissimo dai registi, da Bertolucci a Gregoretti. Ma tutto continua ad essere noioso, come le sue nevrotiche relazioni di coppia. Dopo il tragico epilogo della vicenda Moro, la dura repressione del movimento operaio svuota di senso una lotta politica applicata alla quotidianità con sempre meno convinzione. Il comunismo è morto, lui si sente alienato e solo. Se sparisce gente di famiglia, dice, spariscono anche le relazioni affettive. E lui amava i comunisti. I comunisti italiani, migliori dei comunisti europei per tradizione di lotte, specie i giovani, quelli di quel periodo dorato, svegli, innamorati di un’idea senza farsi schiavizzare dall’ideologia, entusiasti di avventurarsi nella ricerca della liberazione interiore ventilata dal ‘68. …La passeggiata prosegue, in sommesso dialogo con il regista, Pierpaolo De Sanctis, che si manifesta con la voce e di rado, per lasciargli scena libera. La voce di Lou, invece, segnata da un piacevole accento straniero che non compromette una accurata proprietà di linguaggio, è impostata in modalità “nostalgia”, ma non piagnucola né esprime cordoglio per il tempo che fu. C’è anche un’esperienza americana da raccontare, e incontri ravvicinati con qualche grande del cinema: Jack Nicholson (“simpatico”), De Niro, incontrato a Roma insieme al figlio, Kusturica (“un coglione”). Gli dispiace di non aver mai conosciuto Tarantino… Una storia d’Italia vissuta da dentro e da fuori, un ripasso alternativo per chi nel ’68 aveva già l’età della ragione, e un punto di vista inedito per chi è cresciuto con le televisioni di Berlusconi o è nato verso la fine del secolo scorso, quando il riflusso ha cancellato dal mondo concetti sacri come l’impegno politico e la lotta di classe, qualsiasi cosa se ne pensasse: questo è A pugni chiusi, selezionato in concorso nella sezione doc dell’ultimo Festival di Torino. Un ritratto giocato sui chiaroscuri di un soggetto “al crepuscolo”, consapevole di una disillusione che tuttavia non ha modificato le sue convinzioni politiche. Ora che è tornato in Italia vuole riprendere a recitare. E’ diventato un altro Lou Castel. “Ho 72 anni – dice – e non mi si alza più. Ma non è un dramma: tutto si ridimensiona”. Ed è forse questa la lezione più saggia e forte di tutto il film, in tempi segnati da focolai di giovanili rigurgiti nichilisti, come gli attuali. Senza ideologia si può anche vivere, se l’intelligenza è viva e in grado di gestire l’inevitabile amarezza. E inserirsi nella prospettiva di un anziano reso saggio da un’esperienza di vita incomparabile prestandogli ascolto, può insegnare che la storia, il mondo, l’umanità ce l’hanno eccome, un senso: che è quello di commettere tanti errori, ma essere disposti a riconoscerli, senza boria e presunzione. E’ là che si nasconde il nostro tesoro più luminoso e prezioso, da difendere con i denti: la dignità.
(A pugni chiusi); Regia: Pierpaolo De Sanctis; sceneggiatura: Pierpaolo De Sanctis, Alessandro Aniballi, Giordano De Luca; fotografia: Niccolò Palomba; montaggio: Eugenio Persico; musica: Daniele De Santis, Andrea Pesce, Cristiano De Fabritiis; interpreti: Lou Castel; produzione: Inthelfilm, Mibact, Regione Lazio; origine: Italia, 2016; durata: 74’