Addii – Albert Maysles

Aveva appena compiuto 88 anni lo scorso novembre, quando arzillo e sorridente era seduto tra il pubblico del Doc NYC, il documentary festival più grande di tutta l’America, che gli aveva riservato un prestigioso tributo per la sua carriera. Quel sorriso che diventava amaro solo quando ricordava il fratello, scomparso troppo prematuramente, ma che riusciva a coinvolgere lo spettatore nei suoi racconti e nella sua storia. Oggi purtroppo quel sorriso se ne è andato, ma come succede ai grandi, di Albert Maysles ci resta per fortuna la sua grande opera, che ci fa sentire meno orfani.
Nato a Boston, di padre ucraino e di madre polacca, il nome di Maysles purtroppo non dirà molto ai più in Italia. Per accorgersene, basta fare una ricerca online e notare quante poche pagine in italiano parlano di lui o semplicemente che sul portale italiano di Wikipedia non esiste nemmeno una voce dedicata. In realtà questa carenza è una diretta conseguenza dello scarsa e tardiva considerazione che il nostro Paese ha avuto nei confronti del documentario. Infatti per chi non lo sapesse, Albert Maysles è stato “il pioniere del cinema documentario” e, insieme a Robert Drew, l’inspiratore di quel filone che va sotto il nome di cinema vérité, profondo conoscitore e fotografo di quell’America che negli anni Sessanta stava forgiando un mondo e un modello di cui saremmo stati tutti, nel bene e nel male, partecipi o succubi. Un autore freddo, che non conosceva il superfluo e che riusciva a dare un senso anche alle più inutili pause e ai momenti morti. Non era uno che cercava lo spettacolo a tutti i costi, né lo scandalo facile, anzi era capace di riuscire a trovare la singolarità nella banalità e di normalizzare la straordinarietà. Chirurgico e profondo, aveva insegnato psicologia per diversi anni prima di passare, tardi, dietro la macchina da presa ed esordire nel 1955 con Psychiatry in Russia, primo documentario che metteva in luce il caso degli ospedali psichiatrici nell’Unione Sovietica. Dopo i successivi lavori, Russian Close-Up (altro ritratto dell’Urss attraverso un viaggio al seguito di alcuni motociclisti sovietici) e Safari Ya Gari (piccolo viaggio musicale sull’Africa girato in Kenia), Albert rientra in Usa e inizia la collaborazione con il fratello minore David, con cui firmerà tutte le successive opere, diventando per tutti semplicemente The Maysles Brothers. Una ventina di documentari che passeranno alla storia, veri e propri capisaldi di un genere che, a detta dello stesso Albert, “è esattamente quello che ci serve per poter capire e conoscersi meglio e riuscire a volersi bene. È questo il mio modo di fare del mondo un posto migliore. È la realtà che mi fornisce i soggetti, i temi, le esperienze, che emergono poi grazie alla forza della verità e al romanticismo della scoperta. E più mi attengo alla realtà, più i miei racconti vengono fuori onesti e autentici”. Racconti che si focalizzeranno soprattutto sull’America, fotografando l’immaginario pop dell’Occidente attraverso film documentari su star quali Orson Welles, i Beatles, i Rolling Stones, Marlon Brando, Truman Capote, la famiglia Kennedy. Ma forse, più di ogni divo, è The Salesman, il documentario su quattro anonimi e comunissimi americani venditori di Bibbie, che più di tutti e meglio di qualunque altra opera, coglie quell’America falsamente progressista. Come, anche il New York Times aveva scritto nel 1969 a proposito dei “quattro venditori che si muovono orizzontalmente come il sogno capitalistico. È una raffinata, pura immagine di una piccola sezione della vita americana che non è affatto irrilevante ed è uno dei migliori esempi di cinema vérité”. Un’opera che negli Stati Uniti sarà il cult dei Maysles Brothers che per 25 anni continueranno a realizzare ritratti di grande interesse e di particolare incisività, fino al 1987, anno in cui David Maysles, più piccolo di cinque anni di Albert, viene stroncato da un infarto. Da quel momento Albert continuerà a lavorare e a firmare le sue opere con altri storici collaboratori (tra tutti Susan Froemke e Deborah Dickson), ma la nostalgia per quel fratello più piccolo se la porterà per sempre dietro.
Oltre ad essere regista delle sue opere, Maysles sarà ricordato anche come direttore della fotografia del film premio Oscar, When We Were Kings (Quando eravamo re) e operatore per Jean Luc Godard che più volte l’aveva definito “the best American cameraman”. Il suo ultimo lavoro In Transit, diretto insieme ad altri quattro registi, sarà in concorso in anteprima mondiale nella sezione World Documentary del Tribeca Film Festival che già ha preannunciato per il prossimo aprile un doveroso omaggio in suo onore.
Omaggio che Martin Scorsese gli aveva tributato quando era ancora tra noi: “Albert ha davvero lo sguardo di un poeta. Quello sguardo capace di abbandonare la macchina da presa per far spazio alla vita”.
