Addii - Come back to Nashville, Mr. Altman

Sono passati solo pochi mesi da quando abbiamo visto uno dei grandi contestatori dell’immaginario dell’industria hollywoodiana affacciarsi sul palco del più contestato eppur celebrato palcoscenico di quella stessa industria con cui, per tutta la vita, aveva avuto un rapporto di attrazione/repulsione, cercando di creare altrove i sui contro-sogni scaturiti proprio dalla dialettica conflittuale con gli emissari dello studio system e le loro regole. Il contestatore in questione era Robert Altman da Kansas City, classe 1925, e il palcoscenico era quello degli Academy Awards, gli Oscar del cinema americano, una delle tante illusioni prodotte dal sistema, che crede, in questa maniera, di dare una patina di rispettabilità artistica a quel carrozzone di lustrini, paillettes, lacrime, volti e parole di circostanza. Già all’epoca lo celebrammo con una sorta di atteggiamento scaramantico che voleva esorcizzare la paura della morte nel riconoscere l’immortalità del cineasta e della sua opera attraverso la ricostruzione di un percorso, la ricerca di un senso unico, profondo che vada oltre la scomparsa fisica dell’uomo e sancisca il valore senza tempo delle sue visioni. Forse in quel momento avevamo compreso che quella sua ultima apparizione tanto paradossale e apparentemente contraddittoria rispetto a tutta una storia fatta di amari sberleffi,
disperate risate e lucide riflessioni contro la “Città dei sogni” era in realtà il capitolo conclusivo dell’anti-saga sull’impero di Hollywood e il suo suddito ribelle, lo sberleffo estremo, definitivo, Il faccia a faccia tra Davide e Golia, il muro contro muro tra due modi di concepire il cinema e di parlare attraverso il suo linguaggio, una dichiarazione di forza e dignità nel voler testimoniare di essere esistito, di non essere stato solo un sogno e di meritare l’onore e i riconoscimenti anche da parte di quella società dello spettacolo che probabilmente l’ha sempre considerato un incubo.
Insomma, il vecchio Altman non ha fatto come Brewster Mc Cloud, non è stato ucciso come un freak sotto le mitragliate del pubblico circense, non si è fatto contaminare e guastare dal potere, ma ha varcato la “porta d’oro” con il suo corpo massiccio, granitico e il suo volto rugoso, impenetrabile, portandosi dietro tutta la carovana di fantasmi che hanno abitato la terra di confine del suo immaginario, una specie di Far West moderno rispecchiato dentro una pozzanghera, un po’ come il cupolone di San Pietro riflesso nel fango della bidonville di Brutti,sporchi e cattivi di Ettore Scola, tanto per citarte un cineasta europeo a lui vicino più di tanti americani per spietata critica sociale e grottesca riflessione esistenziale.
Certo,sarebbe stato bello se da quel palco fosse spuntata fuori la Suellen di Nashville a conquistarsi finalmente il suo momento di gloria, riempendo con la sua voce sgraziata il teatro e trasformando la negazione del sogno in affermazione testarda dell’umanità in tutta la sua tenera, a volte pacchiana necessità di essere riconosciuta e amata (e “Let me be the one” era la sua canzone). Ma la metafora musicale più azzeccata per il suo cinema è identificabile senza dubbio con la precisazione che fece a quei critici che definirono “una tragedia” America Oggi: ”Short Cuts non è una tragedia, è come il Blues e il Blues non infligge dolore”. Noi potremmo aggiungere che provoca malinconia, struggimento, un senso di dolce abbandono alla memoria che se, non si hanno bei ricordi, può diventare impietosa disamina di identità personali e coscienze collettive. Quello che vedono nello specchio le superstiti al mito in Jimmy Dean, Jimmy Dean è il passato-riflesso di un sogno fasullo come una stella di latta, Il fratello e la sorella di Follia d’amore azzerano il conflitto sulla menzogna della loro infanzia, i “camerati” di Streamers soffocano la solitudine e la sofferenza nella ritualità cantata dell’inno dei paracadutisti destinati alla morte.
Ironizzando e alleggerendo, questo Oscar alla carriera si potrebbe vedere come un annullamento delle volte in cui Bob è stato sconfitto nella competizione ufficiale da Franklin J.Schaffner o da Ron Howard o, altrimenti, dal suo equivalente figlio prodigo Steven Spielberg.
Le prospettive, le suggestioni, i pensieri che hanno accompagnato ogni visione del cinema altmaniano sono sempre andate più lontano, inghiottendo gli anni settanta(l’epoca altmaniana per eccellenza) e trasfigurandoli in un periodo aperto al passato, al presente, al futuro, con quel sentimento spezzato, indefinibile, blues che lascia la porta aperta a chiunque per entrare e “Il diritto di guardare in faccia la vita per quello che è” come diceva Virginia Woolf, nelle brutture come nelle speranze.
Nel salutare definitivamente Mr.Altman vorrei chiudere proprio con una sua immagine di speranza impossibile. Doreen\Lily Tomlin e Earl\Tom Waits coppia di emblematici losers (lei ha investito un ragazzino che poi perderà la vita, lui probabilmente molestava sessualmente la figlioccia) che si ritroveranno ubriachi, abbracciati, legati a filo doppio dal terrore della solitudine e della miseria a divertirsi come due sciocchi, o meglio, folli adolescenti nella scassatissima roulotte di lei.
Grazie Bob, per aver inclinato il tuo sguardo tanto in basso pur di farci ritrovare una briciola di calore umano.
