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Addii - Ermanno Olmi

Pubblicato il 8 maggio 2018 da Alessandro Izzi


Addii - Ermanno Olmi

“Un caffè con un amico vale più di qualsiasi libro”, dice il protagonista di Centochiodi dopo aver luteranamente inchiodato al pavimento cento volumi in segno di protesta contro la cultura fine a se stessa delle accademie.

Meglio le piccole cose e i gesti quotidiani del pensiero che si nutre delle sue stesse parole. Meglio i banali inciampi alla pretesa di dare un senso alla vita.
Perché il Senso, se davvero c’è, è una concessione di grazia e non una costruzione filosofica bella quanto ci pare, ma che tende a bastare a se stessa, beandosi della magnificazione dell’Io che cerca e crede solo di trovare.

Ermanno Olmi, nel corso della sua lunga carriera, ha fatto film con lo stesso atteggiamento con cui si prende un caffè con un amico caro. Con la semplicità di chi si accosta all’altro con desdierio di ascolto, con la curiosità che si ha nel sentire le storie che ha da raccontare e con l’affetto che ci aggredisce sempre quando ne sentiamo il timbro della voce. Soprattutto l’ha fatto con la disponibilità dell’artista che padroneggia un magistero importante, ma lo piega a raccontare il minimo, il semplice, l’insondabilmente profondo.

Poeta del piccolo, Olmi ha raccontato, senza mai nascondersi dietro il paravento di una presunta e sedicente autorialità, l’Italia dei personaggi più minuti e più lontani da ogni salotto culturale. Ultimo cantore del mondo contadino, per cui ha intonato il più commovente dei Requiem (L’albero degli zoccoli, una delle palme d’oro più luminose), è stato narratore del boom colto con l’occhio leopardiano che irride alle magnifiche sorti e progressive. Accorato pacifista, ha trovato nell’artigianato del mestiere delle armi il desiderio di casa del soldato e l’inesausta nostalgia ungarettiana di un fiume che ci lavi di dosso tutto il dolore del vivere e del morire per niente più che una bandiera. Nell’epoca più nera dell’inizio degli sbarchi dei migranti ha intonato un’ode al cartone che i barboni usano per farsi caldo nelle notti di Natale.

In pieno finale di Novecento, mentre sfornava i suoi titoli più memorabili e preparandosi alle perle delle vecchiaia, ha dimostrato come si possa essere cattolici senza essere baciapile, francescani, ma non paternalistici.
Ha messo sempre al centro l’uomo, santo e bevitore, in ogni sua opera e tutto intorno ha visto il vuoto che sta solo a noi riempire. Ha lodato il silenzio e la parlata stenta del dialetto per mostrarci quanto ci stessimo allontanando dalle cose che contano davvero. E per ogni cosa ha cercato le radici, ma l’ha fatto con pudore, col gesto trattenuto di chi sente che in Chiesa bisogna camminare in punta di piedi per non disturbare la quiete della navata che cerca il cielo.

Se ne andato in punta di piedi, dopo lunga malattia, convinto che anche la sofferenza potesse avere una sua cifra di poesia.
E ci ha lasciati un poco più soli, sicuramente più sperduti al pensiero che non ci sarà un suo nuovo film (anche se aveva detto che si sarebbe dedicato solo a documentari, come se ci fosse differenza, nel suo sguardo, tra finzione e vero) a illuminare il buio della sala.

Ma ci ha lasciato anche con la speranza grata di chi sa che l’apocalisse è, in fondo, un lieto fine. E che anche dopo il più rigido e terribile degli inverni, anche allora, si può star certi che torneranno i prati.


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