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Addii - Omar Sharif, il divo e l’uomo

Pubblicato il 13 luglio 2015 da Antonio Napolitano


Addii - Omar Sharif, il divo e l'uomo

“È lei! È lei! Fatelo scendere! Buttati! Buttati! Bussa! Bussa! Corri! Urla! Nooooooooooooo!” Il dottor Zivago crolla a terra, mentre Lara, che non potrà mai più sentire la sua voce, si allontana. Invano Nanni Moretti e le decine di persone accalcate alla televisione del bar a bordopiscina in Palombella Rossa hanno fatto il tifo per lui sperando di poter cambiare il corso degli eventi. Perché nei film in realtà nessuno muore mai, ogni scena, ogni azione sarà sempre un eterno ritorno, soprattutto se sei un divo inteso nell’accezione che ha dato Edgar Morin, “superumani nel ruolo che impersonano, umani nell’esistenza privata che vivono”. Un concetto quello del divo che oggi viene interpretato in maniera quasi opposta e che andrebbe rinominato pseudo-divismo con personaggi artefatti a tavolino pronti ad aprirci le loro case con le proprie foto intime fatte circolare su internet, come ha giustamente scritto Guia Soncini qualche giorno fa su La Repubblica. Ma i divi veri, quelli come Omar Sharif, una casa nemmeno ce l’avevano e trascorrevano la loro vita in albergo, isolati nel loro Olimpo, passando da una città all’altra, da un set all’altro, proteggendo le loro intimità dalla cronaca rosa. Cronaca rosa che non era la pornografia da selfie, inteso in senso etimologico, ma era molto di più, qualcosa che andava oltre il semplice gossip. Era qualcosa che si avvicinava alla mitologia. E dietro il mito si nascondeva l’uomo. Un uomo che, come Sharif, proprio perché consapevole di avere avuto tutto dalla vita, bellezza, donne, fama, si sentiva in dovere di mettersi costantemente in gioco e di rischiare il tutto per tutto. E lo ha fatto l’attore egiziano dilapidando la sua fortuna con l’amatissimo gioco del bridge, facendo così affiorare la sua umanità nell’esistenza privata. Il divo che scendeva dall’Olimpo e che, per pagare i propri debiti, si sporcava le mani e la coscienza vedendosi così costretto ad accettare qualunque ruolo gli venisse offerto. Omar Sharif aveva debolezze umane ma anche doti non da tutti i comuni mortali come la sua gentilezza, e non solo verso le donne, e la sua sensibilità civile e artistica. Ne è stato un esempio, dieci anni fa, quando si innamorò del ruolo del nobile napoletano nel copione del film Fuoco su di me di Lamberto Lambertini e scelse di lavorare gratis e volle recitare a tutti i costi in italiano, a dimostrazione del grande amore che aveva per Napoli e per l’Italia. Virtù umane che di recente dovettero però scontrarsi inevitabilmente nell’epoca dei social network, con un pubblico ormai geneticamente modificato sempre pronto a metterti alla berlina e a deridere i tuoi errori. Così soprattutto per le generazioni più giovani, il nome di Sharif circolava su internet ed era diventato famoso più per gli scatti violenti di ira di cui si era macchiato negli ultimi anni, che per i suoi film. Video che, impietosi, lo immortalavano nell’aggredire verbalmente e fisicamente una giovane fan rea di avergli chiesto semplicemente un autografo. Il divo Omar Sharif era stato completamente attaccato dalle debolezze dell’uomo Michel Dimitri Shalhoub (che era il vero nome dell’attore) e i social network ne amplificavano la sua megalomania e cafonaggine. Ma quei video e quei commenti non sapevano e non potevano prendere in considerazione che era l’Alzheimer che stava invece aggredendo l’uomo e che stava facendo perdere la maschera anche al divo. Un male che avevo notato personalmente quando incontrai Sharif qualche anno fa a Roma e che ti porta ad avere scatti di ira ingiustificati e ad essere violento senza ragione. Un male che mentre stai facendo ragionamenti di un certo interesse e spessore, ti fa confondere improvvisamente e ripetere la stessa frase all’infinito per cui non riesci più ad andare avanti ritrovandoti in terra di nessuno. Un male che purtroppo era stato reso pubblico forse troppo tardi dai familiari e da chi lo assisteva e che invece avrebbe dovuto permettergli un ritiro più decoroso nel suo Olimpo già da qualche anno prima. Quel male che insieme all’infarto si è portato via per sempre l’uomo e, sempre per dirla alla Morin, la sua esistenza privata. Ma il bello del cinema, soprattutto di quel cinema che era rito, immaginario collettivo e che è rimasto indelebile nelle menti e nei cuori di milioni di uomini e donne, è la sua immortalità. Così, orfani dell’uomo, noi comuni esseri mortali potremo sempre ritrovarci tutti insieme davanti ad una televisione in un qualunque bar a fare il tifo, a sperare, a sognare che il dottor Zivago riesca a ricongiungersi con Lara. E avere così la certezza che se il dottor Zivago continuerà a morire in eterno, il divo invece continuerà a vivere in eterno.


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