Addii - Patrick Swayze

In Ghost l’amore sapeva essere più forte della morte, come nei motti stampati sui baci perugina.
Il karma giocava appena con le anime dei defunti intente a ripetere i gesti della loro vita passata. Chi si era comportato bene poteva, alla fine di tutto, andare verso l’alto, seguendo una pioggia di scintille delicate. Ai cattivi toccava la sorte di essere afferrati da ombre di controllori dei treni che ti trascinavano altrove, tra le fiamme del nulla.
Il film si misurava tutto nello spazio dell’allargamento di un’attesa. L’anima buona perdeva il primo treno per il paradiso e gironzolava sconsolata nei pressi della donna amata, condividendone lo strazio. L’amore più forte della morte si condensava nell’angustia di un’abitudine cattiva. Perché stare vicino alla persona amata senza poterla baciare o toccare più che il limbo di un purgatorio virtuale è l’inferno dell’amante.
Il cinema raccontava così l’aldiqua guardato con gli occhi di chi è andato oltre, ma non abbastanza. La ripetizione dei gesti, il rinchiudersi nel dolore, l’incapacità ad andare avanti e a “lasciare andare l’altro” era la morte in vita dell’amore. Film di lutto, Ghost era pervaso di un’aura testamentaria a stento trattenuta nei ghirigori di un erotismo compresso, sempre ad un passo dallo scandalo (la scena degli amanti che modellano la creta a farne un fallo, la seduzione saffica tra le due donne di cui una posseduta dallo spettro del defunto). L’innaturalità del restare in vita dopo la morte si concretizzava nella visione di atti contrari alla norma.
Così il gioco si sposta altrove. La vita, per chi è morto, si trasforma in cinema. La si può contemplare senza intervenire al suo interno. La si deve subire senza che si possa in qualche misura modificarne il corso. E l’immedesimazione provoca il dolore. Una quarta parete invisibile si frappone tra i fantasmi e i vivi. E a stare troppo al cinema si rischia di non capire più la vita vera.
Filosofia profonda che si fa spiccia quando Hollywood ci mette lo zampino e si inventa Whoopy Goldberg che fa da ponte tra un mondo e l’altro. Non si può chiudere un film in tragedia. Non si incasserebbe abbastanza alla fine.
La vita, invece, non ci pensa due volte a piallare la strada. E il lieto fine hollywoodiano non può giungere se la falciatrice nera ha preso il suo appuntamento. Patrick Swayze è morto. Un cancro maligno se l’è portato via quando non arrivava ancora a sessant’anni e il suo fantasma ora sta solo nei film che ha interpretato e che le reti televisive riporteranno in omaggi tardivi che fingono di non tener conto del silenzio che aveva circondato il suo nome già da molti anni.
Di Swayze non si parlava più da tempo. Era diventato come il fantasma di Ghost con un piede nel “di qua” che guarda un gioco cui non può prender parte. I film che riempiranno i necrologi sparsi sui giornali si fermeranno appena al film con Demi Moore che ha aperto anche il nostro pezzo e poi si tufferanno goffamente su Dirty dancing che suo malgrado è stato apripista di un modo nuovo ed attuale di intendere lo spettacolo, coi suoi balletti e, soprattutto, quelle prese che Maria De Filippi avrà studiato sino a notte fonda con la biro in una mano e il telecomando del videoregistratore (che ancora non c’erano allora i DVD) nell’altra.
Un solo titolo farà sentire un po’ orfani i cinefili più oltranzisti: Point break, mentre appena qualcuno lo ricorderà in Donnie Darko. Swayze era un fantasma al cinema già da troppo tempo. Poteva al più omaggiare se stesso come nella comparsata veloce in Dirty dancing 2 dove il suo personaggio veniva bellamente sostituito da quello di un Diego Luna che portava un po’ di politica laddove nell’originale c’era soprattutto sesso.
E al cinema aveva interpretato prevalentemente l’esaltazione della carne, la vibrazione del corpo che passa prima di tutto attraverso movenze di danza. La sua era, con buona pace di Billy Elliot, la riappropriazione virile del ballo. Il movimento si faceva seduzione, sublimazione dell’atto sessuale. In un interscambio curioso dal momento che, ne Il duro del Road house, aveva messo in scena esattamente il movimento inverso: aveva trasformato il sesso in movimenti coreografici della carne.
Con queste premesse non stupisce che l’età l’abbia allontanato dallo schermo prima di quanto possa aver fatto la malattia. Pur rimanendo sullo schermo fino al 2009, anno della sua morte, il divo di Dirty dancing non è più stato in grado di bucare lo schermo dell’immaginario collettivo.
Non eccellente come attore, Swayze non è mai riuscito a superare l’immagine di se stesso degli anni ottanta. Ed è rimasto personaggio marginale di un cinema che non aveva remore a metterlo da parte.
Quello stesso cinema che lo piange ora rimettendo su le scene di Dirty dancing chiedendogli, con questo, di restare ancora un po’ a metà, per guardarci mentre lo ricordiamo.
Noi, da parte nostra, gli auguriamo di trovare presto quella luce che lo accoglieva in Ghost. Quella luce che va oltre la ripetizione, che va oltre le repliche di immagini stantie, che va oltre il cinema e indica, da lungi, qualcosa di più vero.
