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Addii - Paul Newman

Pubblicato il 28 settembre 2008 da Alessandro Izzi


Addii - Paul Newman

Quando poche settimane fa gli fu diagnosticato il cancro ai polmoni, Paul Newman era già diventato “altro” da Hollywood. Non è, quindi, la sua morte, avvenuta ieri in un silenzio che sa di pudore ed orgoglio, a consegnarlo definitivamente al mito e agli annali della Storia del Cinema. Non è il lutto, insomma, a farci ripensare alla grandezza dell’attore e alla più modesta caratura del regista (esordì con l’intimista La prima volta di Jennifer cui sono seguiti Sfida senza paura – pellicola, invero, non eccelsa - Gli effetti dei raggi gamma sui fiori di Matilde, e i più compatti e personali Zoo di vetro e Harry & son, film, quest’ultimo ispirato al suo rapporto col figlio Scott morto per overdose).
La falciatrice triste che amava intrattenersi in partite a scacchi con Bergman, se lo è portato via in punta di piedi e senza clamore quando la parola Fine era già comparsa da tempo sui titoli di coda della sua carriera. Newman stesso l’aveva vergata, con tratto fermo e deciso, ritirandosi dal mondo sfarfaleggiante della Hollywood gossippara dell’industria già due anni fa, chiudendo il sipario sul suo lavoro d’attore.
Un abbandono graduale, meditato, profondo.
La prima a sparire dallo schermo fu l’immagine dell’attore. Il 2002 è l’anno di Road to perdition: l’ultimo in cui le sue rughe profonde ed espressive, i suoi occhi cerulei (forse i più famosi del mondo), il suo corpo sempre slanciato ed asciutto malgrado l’età e i primi indizi della malattia, compaiono sul grande schermo di quel Cinema che lo annoverò tra i Grandi e tra i Divi. Negli anni successivi ci fu spazio solo per poche apparizioni in film televisivi di buon gusto e di poche ambizioni. Un modo elegante per chiudersi nell’intimità, per cominciare a lasciarsi alle spalle un lavoro cui aveva dato molto e da cui si era rifiutato di prendere troppo.
Tra il 2005 e il 2006, infine, di Paul Newman resta, nei film, solo la voce. Fuori campo, fuori dal mondo delle immagini, niente più che un’acusma fluttuante che ha già cominciato a lasciare questo mondo anche se continua ad intrattenere con esso un rapporto che è di nostalgia senza rimpianti. In Cars, in Mater and the Ghostlight Paul Newman è già un fantasma che guarda al nostro mondo dall’aldilà. Anzi, forse proprio Cars, con il suo rimpianto ad un cinema del passato, col suo ricordo di quando un film poteva essere un monumento ad un modo di vivere e di pensare, può segnare una sorta di ripensamento alla propria stessa carriera. Paul Newman vi interpreta il padre, colui che guarda al mondo dal proprio volontario ritiro, consapevole di avere ancora una lezione da raccontare, ma anche del fatto che le nuove generazioni sono troppo arroganti per rendersene conto. Lontano dai riflettori, ferito, ma non domato, infinitamente saggio e ancora giovane nel cuore e nella mente: più autobiografico di così!
Noi in Italia, grazie alla pratica berbara del doppiaggio, l’abbiamo ucciso ben prima della sua stessa morte.
Dopo il 2006 il silenzio anche della voce certifica un abbandono e un bisogno. Lui, mito di un Cinema intelligente, bello, ma con l’anima sentiva di non avere molto altro da dire e che il poco tempo che gli restava doveva essere dedicato a qualcosa di più degno di un semplice film.
Di grandi pellicole, in fondo, ne aveva fatte tante. E il solo Oscar della sua carriera, dopo tante nomination, era arrivato nel 1987 con Il colore dei soldi e lui si era rifiutato di ritirarlo perché sapeva quanto quel premio fosse poco importante e niente più che un risarcimento per una carriera di cui ancora nessuno comprendeva bene l’importanza.
Ora, con l’approssimarsi della fine, a contare, per lui, erano solo la moglie (Joanne Woodward: uno dei matrimoni più longevi di sempre per una star che difendeva strenuamente il valore della fedeltà coniugale in un mondo di celluloide dove il sesso facile era all’ordine del giorno) e le figlie. Newman, anzi, completato appena il primo inutile ciclo di chemioterapia, aveva espresso il desiderio di morire nella propria casa. Ancor più lontano, ancor più ritirato, solo concentrato in quelle cose che sono vere per davvero: l’amore di e per una moglie, l’affetto caldo di una famiglia che ti vede morire e ti lascia andar via in un’ultima dissolvenza.
L’Uomo muore quando l’artista se ne era già andato da tempo, volontariamente e con calma fermezza. Ultimo grande divo di Hollywood, Paul Newman aveva già deciso come voleva essere ricordato. Anzi, a parer nostro, aveva scritto da solo un pudico coccodrillo che ne ricordasse a tutti la carriera e la dedizione. Non aveva voluto concedere alla morte e ai giornalisti questo dubbio privilegio.
Poi, messo l’attore nell’armadio con quel po’ di naftalina che tiene lontana gli sciacalli, era rimasto solo uomo, solo marito e solo padre. Definitivamente più grande, come persona, di quell’attore pur gigantesco che era stato.


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