Addii - Rod Steiger: E venne un uomo

Rod Steiger è stato, tra tutti i sostenitori del metodo dell’Actor’s Studio, quello che non ha mai dimenticato che recitare è anche un po’ “giocare”.
Egli ha sempre concepito la sua attività di interprete non solo alla stregua di un lavoro che va preso con maniacale serietà (con tutte le ricerche sul campo e il processo di immedesimazione che conosciamo bene perché altri vi hanno voluto costruire su un mito), ma anche un vero e proprio divertimento dell’anima, una ricreazione dello spirito che riconduce il lavoro dell’attore sul piano (forse commerciale, se visto da un certo punto di vista) di un mai banale rapporto col proprio pubblico.
La “creazione” del proprio personaggio, attraverso un calibratissimo lavoro di definizione di gesti, di inflessioni della voce, di accenti non ha mai avuto un’importanza spropositata rispetto all’idea di un cinema inteso anche come luogo di incontro tra un attore e i suoi spettatori in quel terreno franco ed ambiguo che è il personaggio.
Entrare in punta di piedi nella pelle di un’altra persona e cominciare ad assumerne il comportamento non è mai stata un’attività snobistica e fintamente autoriale, ma un processo lento, spesso doloroso, frutto di un lavoro complesso che miracolosamente non lasciava quasi traccia di sé appena il clangore di legno del Ciak aveva dato l’avvio alla scena di un film.
È pur vero che i risultati migliori Steiger li otteneva quando, per motivi di copione era costretto a lavorare con attori della sua stessa levatura (magari anch’essi provenienti dall’Actor’s Studio), mentre, se solo in scena, tendeva ad andare troppo a briglie sciolte, ma la tendenza al gigionismo è tipica di quasi tutti gli attori che si sono formati sotto l’egida di Stanislavskj.
E non si può alla fine negare che come uomo di grande cultura cinematografica, quale in fondo era, egli è stato spesso anche capace di capire quando un suo personaggio smetteva, nell’economia del film, di avere importanza per la sua psicologia per limitarsi ad essere un ruolo, una funzione pura e semplice dell’intreccio. Non si spiegherebbe altrimenti la sua capacità straordinaria di “mettersi da parte” per indossare semplicemente dei luoghi comuni (ma con quale incredibile classe) nel rendere un personaggio come quello del Generale delle Forze Armate Statunitensi in Mars Attacks di Tim Burton. Nel restituire al suo pubblico questo splendido concentrato di stereotipi, certo Steiger dovette ricordarsi della sua esperienza in marina dove letteralmente si rifugiò ad appena sedici anni per sfuggire all’asfissiante ambiente domestico (i continui litigi dei genitori, poi culminati nel divorzio). E, infatti, nella sua interpretazione parossistica della brama di guerra del militare vibra costante (e ne costituisce un segreto motivo di fascino) un affetto reale verso quel mondo che pure sta mettendo, divertentemente, alla berlina.
Nel corso della sua carriera Steiger ebbe la possibilità di confrontarsi con ogni tipo di personaggio, trasformando la sua carriera in una sorta di magico laboratorio in cui ogni componente dell’anima umana veniva messa a reagire con ogni tipo di racconto.
Certo non mancarono vistose cadute di tono e lavori portati avanti esclusivamente per motivazioni, diciamo così, “alimentari” (Amityville horror di Rosenberg tante per citare forse il suo film peggiore), ma sono perdonabili a fronte di tanti magici momenti che seppe regalarci.
Il suo lavoro in Italia lo portò a collaborare con registi del calibro di Olmi (... e venne un uomo), Rosi (Le mani sulla città), Lizzani (Mussolini ultimo atto) e Zeffirelli (Gesù di Nazareth) e per questo, forse, ci è ancora più caro il suo ricordo. Ma è proprio in questo ambiente e in questo periodo felice di collaborazione tra Usa e Italia che egli dà alla luce uno dei personaggi più alti della Storia della Cinematografia Universale: Juan in Giù la testa di Sergio Leone.
Figura emblematica, simbolica rappresentazione del popolo è, forse, proprio in questo personaggio caratterizzato da una violenza a tratti quasi caricaturale, ma sempre e comunque al di là del bene e del male che si è concretizzato meglio il rapporto tra l’artista e il suo pubblico.
Resta inspiegabile come un tale attore possa aver ricevuto un solo Oscar (La calda notte dell’ispettore Tibbs) nel corso della sua pluriennale attività. Ma siamo sicuri che il suo lavoro resterà per sempre scolpito nel marmo della celluloide.
[luglio 2002]
