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Addii - Vincenzo Cerami

Pubblicato il 18 luglio 2013 da Alessandro Izzi


Addii - Vincenzo Cerami

Per Vincenzo Cerami la poesia semplicemente era.

Era una cosa necessaria come l’aria che respiri, ma, come per l’aria non ti poni tanto la domanda di che cosa sia e di dove venga.
Semplicemente lasci che ti riempia i polmoni.

Era come l’erbetta che nessuno ha seminato, ma che riempie di verde le alte vette del pensiero. E Cerami l’ha raccolta spesso, quest’erbetta leopardiana, e ne ha fatti piccoli fasci che, nel corso del tempo si son fatti romanzi, sceneggiature o piccole canzoni che poi Piovani riempiva di musica.

Il lavoro del poeta per lui era davvero, come aveva scritto in un articolo de L’Unità divenuto poi proverbiale, quello di un botanico che scala le montagne per raccogliere le foglie di una varietà di piante che ha bisogno del cielo fresco di mattino delle grandi altezze. Come un’eremita, s’è riempito il sacco di poche piccole cose e ha affrontato, caparbio, i percorsi degli stambecchi, tra le rocce aguzze, in cerca dell’aria alta e fina che ha lasciato le città piene di troppo smog. Ma mentre l’eremita s’accontenta del respiro corto dei paesaggi mozzafiato della sua preghiera solitaria, Cerami è sempre sceso a valle, col mazzolino di rose e di viole della sua passata età bambina, a condividere con gli altri il lieto bottino per tutti necessario.

Ecco la sua idea di arte popolare, ma sempre Arte, nasceva tutta in questo bisogno di dividere, di spezzettare, di dare a tutti il suo.
La poesia, bene universale, per lui doveva andare anche a chi non si avvedeva fino in fondo di quanto gli bruciasse dentro il bisogno di stupirsi. L’adulto che prende troppo presto casa in ciascuno di noi ci porta troppo spesso a pensare che la poesia non serva, che sia un fico che non dà più frutti.
Cerami parlava anche e soprattutto a questo adulto e cercava di passargli l’esperienza della bellezza che, da qualsiasi parti la si guardi, ha sempre dentro un pezzettino di te e di me che ci rende fratelli al di là delle guerre d’opinione.

Per questo fu fondamentale il suo incontro con Benigni che diede i Natali a film spesso squilibrati, ma che cercavano ostinatamente la bellezza anche dentro la Shoah di La vita è bella o dentro la guerra di La Tigre e la Neve.
Lui che cantava spesso in favola, cercava nell’incanto la rima impossibile col tragico, ma non per questo era un narratore che non sapeva guardare in faccia la Realtà. Al contrario, allievo di Pasolini, con cui collaborò, assistente alla regia, nelle fiabe più delicate dei comizi d’amore e degli uccellacci e uccellini, esordì nel cinema con il caustico cinismo di Un borghese piccolo piccolo. Si fece, cioè, cantore dell’italia più sporcata dallo smog. Proprio lui che continuava a svegliarsi presto la mattina per andare a cercare in montagna la poesia più fresca e dolce.

I giornali titolano oggi, a caratteri cubitali, che è morto lo scrittore de La vita è bella. Non gli si fa, però, giustizia a ricordarlo per il suo rampollo più famoso ma spesso troppo furbo nel parlare d’altro mettendo in scena la più grande tragedia del secolo passato.
Figlio suo, è indubbio, cucito intorno all’attore di cui meglio seppe prendere le misure e musicato dal compositore che più seppe cogliere la musica già evocata dalle sue parole, eppure meno importante di quanto non paia a tutta prima.

Noi Cerami preferiamo ricordarlo non mentre traduce l’orrore nel gioco di un bambino, ma quando sa scoprire in quel bambino un tesoro di poesia.
Per molti anni Cerami è stato quel bambino. O, forse, meglio, è stato quell’adulto che ha saputo dare al bambino chiuso in ciascuno di noi un abbecedario per cantarsi nelle notti piene di paura.
Per questo ha ragione Benigni a dire che conoscerlo è stato un regalo di cui non sappiamo chi ringraziare. Ed ora che s’è fatto fino come l’aria alta di montagna, ci lascia a confrontarci con la consapevolezza che «i ricordi più belli sono quelli che abbiamo dimenticato, e stanno scritti nella poesia».


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