All Eyes Off Me
Giunta ormai al suo secondo lungometraggio dopo People That Are Not Me (2016), la giovane regista israeliana Hadas Ben Aroya approda nuovamente al Festival con una pellicola dai toni anarchici, irritanti e provocatori (anche se solo in parte). All Eyes Off Me è come un enorme labirinto le cui strade portano sempre nelle stesse tre stanze: la cinepresa viene trascinata sul grande schermo da Danny (Hadar Katz), rimasta incinta di Max (Leib Lev Levin), il quale adesso sta con Avishag (Elisheva Weil). Pur senza incrociarsi mai del tutto, le vite dei protagonisti suddividono il film in tre atti, senza però trasmettere all’occhio dell’osservatore una seppur vaga impressione di continuità. La narrazione, rigorosamente circolare, segue le piatte esistenze di cui si compone una generazione rassegnata alla noia e al tempo stesso in lotta con essa. La lingua madre dei fotogrammi potrebbe definirsi internazionale, la sua radice idiomatica è da ricercarsi nei cosiddetti figli del terzo millennio: i personaggi non hanno nulla da dire (o meglio, da dirsi), ma si limitano ad articolare l’agghiacciante buco nero che li circonda e li strangola.
Nessuno elabora l’idea di meritare qualcosa di più che non sia rispondere alle proprie immediate esigenze: Danny, Max e Avishag si drogano, mangiano, vanno a letto l’uno con l’altro, si ubriacano e sbarcano il lunario, ma sempre e comunque rifiutandosi di scaricare altrove (così come su sé stessi) la responsabilità dei gesti compiuti. Ogni concatenazione di eventi nasce da una selvaggia e insieme naturalissima ingovernabilità di fondo che permea l’intero microcosmo in cui le marionette si muovono. I retroscena sociali e politici vengono cancellati e in fondo non sono importanti, la famiglia è un concetto assente, non ci sono conflitti che spingano i ragazzi in questo tunnel meno claustrofobico di quanto non possa sembrare. Ci si chiede quale genere di disagio – sempre che di disagio si tratti – muova i fili del teatrino, o se invece l’obiettivo non voglia semplicemente mostrare al pubblico uno stato di cose privo di qualsivoglia impalcatura sociale e / o ideologica. Ben Aroya s’inserisce nella linea già tracciata da una (anche se lontana) la scrittrice e cineasta tedesca Helene Hegemann, mettendo a fuoco i dettagli di cui i primi anni duemila si compongono: lo smartphone come ingombrante feticcio, la violenza come parte della propria ordinaria routine, lo smarrimento come conditio sine qua non di una quotidianità tediosamente schizofrenica. Avishag, personaggio attorno al quale le vicende si moltiplicano, è una sorta di Alice dietro lo specchio: non ha una casa né tantomeno reali affetti, non segue una meta precisa, non possiede nulla che possa ricondurla ad una qualsiasi forma di stabilità. Inoltre, facendo il contrario di ciò che invece si dovrebbe fare per unire azione a reazione, la giovane donna si comporta proprio come l’eroina di Carroll.
Nell’universo dipinto dalla filmmaker israeliana, ognuno parla senza mai davvero sforzarsi di comunicare, tutti corrono ovunque pur rimanendo fermi al punto di partenza, il tempo scorre impietoso – eppure non passa mai. Ma proviamo ad essere più precisi: se affermassimo, ad esempio, che Danny non ha il coraggio di mettere Max al corrente della sua gravidanza, mentiremmo. Danny lo informa eccome, anzi, avvisa l’intero gruppo di amici, ma lo fa utilizzando un linguaggio troppo personale e intimo per pretendere di essere compresa a fondo. I protagonisti vagano di appartamento in appartamento senza curarsi di prestabilire dove dormiranno o chi incontreranno o su cosa converseranno, ogni nuovo giorno svanisce nel nulla cosmico. Avishag è alla ricerca di esperienze sempre più estreme per scongiurare la monotonia del suo spaziotempo, ma al primo assaggio di dissolutezza (se così si può chiamare il suo avventato tentativo di dare una svolta alla sua vita sessuale), la ragazza si spaventa e ovviamente fugge via. La realtà lascia delle cicatrici che, una volta materializzatesi, è difficile poi curare. Forse la libertà illimitata ed eccentrica che questa generazione porta a vessillo è solo un vago fantasma di storie stantie ed estranee, per giunta già vomitate da altre bocche – storie che, fra l’altro, sarebbe quasi meglio lasciar perdere. L’equilibrio verrà raggiunto soltanto all’epilogo, quando nessuno si sentirà più in dovere di adattarsi all’entropia e Avishag riuscirà (non senza un aiuto esterno) a fare un piccolo passo in avanti, acquisendo quella consapevolezza un po’ amara e un po’ adulta finora ostinatamente ripudiata.
(All Eyes Off Me); Regia: Hadas Ben Aroya; sceneggiatura: Hadas Ben Aroya; fotografia: Meidan Arama; montaggio: Or Lee-Tal; interpreti: Elisheva Weil (Avishag), Leib Lev Levin (Max), Yoav Hait (Dror), Hadar Katz (Danny); produzione: Hadas Ben Aroya, Maayan Eden; origine: Israele 2021; durata: 88’.