Americana - Camelot

Il film in costume, condito con la giusta dose di sesso, di strade fangose e di regge coi tetti di paglia comincia ad avere una tradizione di lungo corso nella nostra televisione più recente.
Gli scavi nel torbido, nelle pulsioni primarie che accompagnano e spesso determinano anche le scelte più politiche, hanno di fatto sostituito ogni parvenza di scavo nella storia o nel mito. Nel passato, fitto e fatto di corridoi bui appena illuminati da torce fumiganti e spesso ambigui ricettacoli di ombre, i lati oscuri si sono insinuati sin nelle sale regali e nei balli di corte, corrodendone l’apparente giocosità.
La Storia è turpe. Come il presente, in fondo, ma più genuino nella sua incapacità a nascondere la grana grossa di esistenze da fuilleton. Luogo di intrighi e brame, dove gli istinti sono liberi di esercitarsi come in una palestra che più è sozza e meglio è.
The Tudors, The Borgias, adesso Camelot sono luoghi di drammi primari in cui il sesso si impasta col sangue e collo sperma alla ricerca di uno scandalo senza scandalo.
In questa equazione perfetta, di spettacolarità di grossa grana e ampi movimenti di macchina, Camelot ci aggiunge appena la dimensione magica. Anch’essa sporca, greve e tanto arcaica che pare uscita da una formula delle streghe di Macbeth, ma senza la disillusione esistenziale del dramma elisabettiano.
Ha ragione che scrive di Camelot come di una sorta di soap epica. Gli ingredienti sono gli stessi della serialità inesauribile dei drammi da primo pomeriggio, solo che la storia chiusa nel passato si deve accontentare di un arco narrativo più breve, più stretto nelle maglie di un ciclo che deve comunque conoscere una fine a suo modo obbligata.
Rispetto alla fonte narrativa originaria, già più volte saccheggiata dagli schermi di tutte le dimensioni, Camelot spinge la narrazione maggiormente verso il personaggio femminile di Morgana (Eva Green), vero fulcro della vicenda ed unico principio di opposizione in una trama che altrimenti non esisterebbe.
Artù (Jamie Campbell Brower, già visto in Sweeney Todd di Tim Burton) e il suo romanzo di formazione passano in secondo piano, rispetto a lei, divengono quasi i satelliti di una narrazione fortemente ricentrata. Castore e Polluce di un Marte femminile che si porta impresso, sul viso volitivo, anche il segno segreto di Venere.
Stessa sorte, in fondo, tocca anche a Merlino, che in Camelot si avvale della rara inespressività di Joseph Fiennes. Il suo rapporto con la magia, che si usa solo nella stretta necessità, perché il potere costituisce una troppo trista tentazione è la strada che Morgana non è stata capace di prendere. Specchio fedele di un al di qua della brama, che si appaga dell’esercizio della ragione nel chiuso delle segrete di un cuore che architetta con cura certosina il futuro senza apparentemente troppo preoccuparsi delle persone che calpesta nel frattempo. In fondo immagine allo specchio di Morgana. Ugualmente nera anche se mancina.
Ci sarebbe molto da discutere sulle licenze poetiche che Camelot si prende. Gli anacronismi sono, in fondo, il sale di operazioni di questo tipo e costituiscono, tutto sommato, uno dei motivi del loro successo presso il pubblico.
Sicché stupisce un poco che la serie non abbia avuto quel successo che avevano avuto, invece, I Tudors. Ma forse è proprio l’anima da fantasy terrigno ed aspro a lasciare stanco un pubblico che forse avrebbe gradito un pizzico di ironia in più.
