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Americana – Community

Pubblicato il 25 luglio 2010 da Marco Di Cesare


Americana – Community

Ciò che più affascina in questo lavoro della NBC Universal - a nostro parere una delle migliori serie al debutto quest’anno in Italia - è la sua insistenza sul concetto che le dà il titolo. Concetto analizzato attraverso la lente più o meno distorta di una commedia caustica e parodistica, ma che cerca il proprio senso in un’esistenza di pace passando, però, attraverso il caos. Un prodotto anche complesso, ma che comunque rimane profondamente diretto e che sa parlare in maniera intelligente e sensibile, divenendo esibizione di un gioco che rilegge completamente il genere della commedia giovanilistica, giungendo fino a toccare il punto cruciale che, date le condizioni di partenza, è una meta predestinata: ovvero capire chi si è e cosa significhi essere umani in una società spersonalizzante, dove tuttavia è ancora possibile ricercare la libertà di fianco a un senso morale, sullo sfondo dello scorrere del tempo che è racchiuso tra le mura di un edificio universitario da sit-com, ritratto entro i limiti mai angusti di una ventina di minuti per episodio, nei quali vengono rappresentati i punti di forza e debolezza di quella particella sociale costituita da una comunità di persone.

È un cerchio che si stringe sempre più attorno all’idea primigenia, il gruppo di studio nato al Greendale Community College per preparare un esame di spagnolo, riunitosi intorno al tavolo di una biblioteca di un’università statale del Colorado, ritrovo di sfigati d’ogni tipo. In questo luogo del perdersi, l’unico a giungere per causa totalmente di forza maggiore è Jeff Winger (Joel McHale), cinico e spocchioso avvocato di successo, vicino ai quaranta, che deve tornare a studiare poiché deve riprendere una laurea che l’Ordine ha scoperto essere non valida. Il primo giorno di ’scuola’ il suo occhio rapace prontamente si poserà sul fascino aggraziato della bionda Britta Perry (Gillian Jacobs), secondo tutti una sosia di Elisabeth Shue (e secondo alcuni la ragazza prova a essere come quell’attrice famosa): comunque si tratta di una ventottenne piena di ideali che cerca di seguire un percorso di crescita interiore. Però lei, intelligente e scaltra quanto basta, porterà una persona con sé, e in un battibaleno ne arriveranno altre, uno scudo umano che possa difenderla dalle avances di Jeff. Da quel nucleo fortuito, col tempo sempre più si svilupperà una piccola comunità di sette persone. Ossia Abed Nadir (Danny Pudi), un giovane americano di origine palestinese, un ragazzo che sembrerebbe vivere in un mondo un po’ tutto suo, amante della cultura di massa in generale; comincerà a emanciparsi dal padre quando Britta lo aiuterà a iscriversi a un corso di cinematografia, dopodiché avrà sempre una videocamera in mano; (nell’episodio #3, Introduction to Film, confiderà che «Il primo compito è un documentario: è come un film, ma con gente brutta»). Poi c’è Shirley Bennett (Yvette Nicole Brown), una trentacinquenne afro da poco abbandonata dal marito, alquanto insicura di sé stessa. Quindi Annie Edison (Alison Brie): è la più giovane del gruppo, si tratta di una diciottenne nerd, carina e repressa, con alle spalle trascorsi di disturbi psichici (in #10, Environmental Science si esalterà di fronte alla possibilità di un successo dichiarando: «In clinica di riabilitazione ero quella con meno chance di fallire!»), fin dal liceo innamorata di Troy Barnes (Donald Glover), un’ex futura promessa del football che non è riuscito a ottenere una borsa di studio per meriti sportivi, a causa di uno sciocco infortunio che si è procurato intenzionalmente, per paura di avere gli occhi degli altri puntati addosso. Infine un altro bel personaggio come Pierce Hawthorne (Chevy Chase), un piccolo imprenditore ultra sessantenne, divorziato sette volte, a volte fastidioso, un residuo degli anni Settanta fissato col sesso e con le proprie misure anatomiche.

Quella di Community è una galleria di personaggi che da stereotipi sanno emergere in quanto persone, seguendo un percorso di crescita (non sempre propriamente lineare) che li rende interessanti, nei loro slanci come nelle loro piccolezze.
Nel corso del Pilot viene più volte espressamente citato The Breakfast Club, il film di John Hughes (deceduto l’anno scorso, una quarantina di giorni prima del debutto della serie, che è stata dedicata alla sua memoria), uno dei massimi esempi del cinema adolescenziale degli anni Ottanta, omaggiato anche in chiusura attraverso una cover della canzone che era il pezzo grosso della colonna sonora: ovverosia la splendida Don’t You (Forget About Me) dei Simple Minds. In questa pellicola gli studenti di un liceo si trovava costretti a convivere in una biblioteca a causa di una punizione; ciò li costringerà a rivelarsi gli uni agli altri, aprendosi assieme ai propri malesseri e ai problemi con le rispettive famiglie. Inoltre l’autore di Community, Dan Harmon (uno dei creatori del sensazionale Sarah Silverman Show), ha affermato di avere tratto ispirazione da alcune sue vicende personali, come l’essersi accorto di avere abbandonato il proprio egoismo dopo avere capito l’importanza di lavorare con altre persone.

Ma quello che ’sconvolge’ di Community è il modo attraverso il quale si distanzia dai prodotti giovanilistici: l’intento parodistico ovviamente risiede nella distanza anagrafica, a volte enorme, che si frappone tra i personaggi, quelli principali come quelli di contorno, tutto col fine di ricreare una comunità fortemente transgenerazionale che meglio sappia rispecchiare la realtà del mondo, affinché, in tale modo, possano essere abbattute le barriere più o meno invisibili che lo attraversano. Si pensi, per esempio, al tripudio di diversità di #12 Comparative Religion, episodio di metà stagione dedicato al Natale, periodo nel quale gli studenti tornano a casa: scopriremo che Britta è atea, Jeff agnostico (secondo Pierce si tratta dell’ateismo dei pigri), Annie ebrea, Pierce di una setta che neanche lui sa, Troy Testimone di Geova, Shirley cattolica. Ovviamente sarà quest’ultima a costringere amabilmente gli altri a festeggiare con lei: così dall’iniziale finta apertura, dalle stoccate dettate dall’insofferenza («Oh, guardate! Britta ha portato ciò in cui ha fede: cioè niente»), Shirley passerà a una maggiore comprensione, così come Jeff. Inoltre non meno importante è la possibilità di non negare a nessuno un percorso di crescita e di cambiamento, di maturazione anche, nel senso più profondo di rinnovamento: prerogative, queste, che non è giusto lasciar terminare assieme alla conclusione della giovinezza. Inoltre, in questo modo, si mette in atto una crisi, ossia una transizione che, però, potrebbe condurre verso un futuro diverso.
«È una lezione importante, amico mio. Vedi, le abilità che ti servivano per sopravvivere là fuori, non ti serviranno qua a Greendale. Quella che hai tu, amico mio, è una seconda possibilità per una vita onesta». È questo il modo con cui il Professore Ian Duncan accoglie Jeff, il quale lo salvò da una multa quando erano colleghi di studi. Ma ora il signor Winger farebbe di tutto per laurearsi di nuovo e presto, compreso ricorrere all’inganno. Non che Duncan, però, sia una persona ’normale’ e totalmente apprezzabile: perché è uno psicologo che è strano quasi quanto il Señor Ben Chang, uno squilibrato americano di origine cinese che insegna spagnolo; oppure pressappoco quanto il Preside Pelton, che si sforza di mostrarsi politicamente corretto, nutrendo poi l’ambizione, per nulla nascosta, di far diventare il Greendale un college rispettabile come qualsiasi altro.
Perché quel campus da quattro soldi è il regno del caos, dove vi sono anche studenti di ottant’anni, con pochi tra di loro che possano essere considerati attraenti dal punto di vista strettamente estetico, dove la rabberciatissima squadra di football si chiama ’Gli esseri umani’, un team la cui mascotte indossa una tuta da efebo, senza colore affinché possa rappresentare l’intero genere umano, senza distinzioni di razze; peccato, però, che non possa né vedere, né parlare...


Abed: «È davvero bello avere qualcuno con cui guardare la tv. Mio padre non voleva mai guardare nulla, così sono stato praticamente cresciuto dalla tv».
Jeff: «La tv è il miglior padre che ci possa essere: la tv non torna mai a casa ubriaca, la tv non ti dimentica mai allo zoo, la tv non si approfitta di te e non ti insulta mai. Eccetto per Cop Rock».
(Dialogo tra Abed Nadir e Jeff Winger in #08, Home Economics)

Certamente è un Jeff alquanto depresso quello che pronuncia queste parole, divertenti sì, perché ribaltano il senso comune, ma che rappresentano soprattutto un vero pugno nello stomaco, poiché esplicitano un senso di abbandono e di solitudine degna del più triste tra i teen drama. Uno scambio di battute che evidenzia come possa essere la Community il vero rifugio, l’unica vera famiglia.
Però in questa serie un’idea basilare è cercare di capire se l’individuo possa farsi rovinare dal gruppo - o viceversa – e, più in generale, se l’Uomo sia buono oppure malvagio, come accade in #10 (Environmental Science) durante la gara di dibattito contro alcuni studenti del City College, il cui alfiere è un giovane paraplegico che vuol convincere la giuria sull’altruismo dell’umanità. Ma sarà proprio la tenera Annie (la perfettina che, negli anni del liceo, in preda alle crisi di nervi, andava gridando che gli uomini sono dei robot) a servirsi di un bacio per mostrare, al contrario, la malvagità dell’umanità e il suo attaccamento solamente al piacere e al proprio tornaconto a seconda delle circostanze.
Malgrado le indecisioni, nonostante amori che non decollano, sebbene sia problematico tirarsi fuori dalla confusione, non rimane che affidarsi all’occhio di una videocamera e guardarsi attorno, in silenzio, potendo forse così trovare un filo, come fa Abed con i suoi corti, restituendo e anche anticipando la realtà attraverso la sua ’particolarissima’ creatività e un piccolo schermo che trattiene le immagini come se fossero i ricordi di un’intera comunità.


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