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Americana - Crash

Pubblicato il 29 aprile 2009 da Lorenzo Vincenti


Americana - Crash

Non stupisce più nessuno la commistione sempre più rilevante tra industria televisiva e cinematografica. Quella che una volta veniva considerata come una tendenza originale e sintomatica di un epoca postmoderna, oggi è da considerarsi a tutti gli effetti una vera e propria consuetudine favorevole, una sorta di marchingegno infernale entrato ormai a regime e capace di maciullare i residui di un passato desueto attraverso il rinnovamento costante di linguaggi e forme. I resti di una tv preistorica agonizzante e la staticità di un certo cinema classico dal sapore romantico vengono così, sempre più rapidamente e in maniera sempre più superficiale, spazzati via dalla onnipotenza di un sistema fagocitante, fatto di ingranaggi ben oliati e in grado di ridefinire continuamente le regole del gioco. Vittima o artefice di un dinamismo continuo che annulla ogni cosa realizzata sino al giorno precedente, tale sistema propone ciclicamente la ridefinizione del concetto di moderno attraverso l’evoluzione dei parametri del realizzabile e la ricollocazione della frontiera del visibile.

Un esempio evidente di questa affermazione è rappresentato da Crash, una serie televisiva nuova, moderna appena apparsa sui nostri teleschermi grazie al canale satellitare Cult. Realizzata dal network americano Starz, essa è il simbolo classico di ciò che nei prossimi anni potrebbe avvenire con sempre più frequenza. E’ un prodotto che non si limita infatti a prelevare un attore dal cinema per trasformarlo nell’icona simbolo di un gemellaggio frequente, ma è qualcosa di molto più complesso ed articolato, che mette in mostra i tratti e le peculiarità del cinema più sofisticato, che nasce dalle specificità di quel linguaggio e che si afferma come espressione alta di ciò che l’arte cinematografica può realizzare anche al di fuori dei classici canali di veicolazione.

Crash, come si può intuire, nasce da una costola del pluripremiato lavoro di Paul Haggis del 2004 ma è doveroso sottolineare in apertura come non ci sia all’interno della serie alcuna traccia di subordinazione o dipendenza rispetto al lavoro originale. Il team creativo, comandato da Glen Mazzara ma supervisionato dagli artefici principali del film (Paul Haggis, Bob Yari, Bobby Moresco, Don Cheadle), si dice disposto, nel riprendere le linee direttive dell’opera, a continuare un percorso intenso, coeso e, se necessario, ancora più incisivo nella messa in atto della vasta indagine sociologica intrapresa precedentemente. Non è importante che i personaggi raccontati nella serie non corrispondano a quelli del film o che nel passaggio dal grande al piccolo schermo i nomi e i ruoli mutino radicalmente. Ciò che conta è la giungla di anime alienate, è il contesto di una Los Angeles decadente, putrida e infetta più di quanto i suoi colori sgargianti e le immagini da cartolina lascino immaginare, ciò che conta è la microstoria che intreccia i suoi fili con un’altra, e poi con un’altra ancora, fino a formare una ragnatela di percorsi, traiettorie ed eventi iniziati nel film e proseguiti nella serie senza soluzione di continuità (le linee tracciate nella sigla d’apertura sono il simbolo più chiaro di questo concetto). Quello raffigurato in Crash è un immenso conglomerato urbano, un formicaio vivo e pulsante all’interno del quale le diverse personalità si muovono senza un senso logico, senza riuscire mai ad evadere realmente da una condizione di immobilismo endemico in cui purtroppo la società li costringe. Tale sensazione è ottimamente restituita in termini visivi dalla fotografia di Russell Lee Fine, artefice di un mirabile lavoro tutto giocato sulla composizione di una dialettica forte tra corpi inermi e spazi circostanti oppressivi. Metafora delle barriere invalicabili che sempre più spesso la società costruisce tra un essere umano e l’altro (molte volte l’occhio della macchina da presa riprende le scene dalla stanza accanto, per mantenere al contempo la distanza dal centro dell’azione e dare sfogo ad un’istanza vouyeristica moderna).

Il primo elemento che rimane impresso alla visione di Crash è il continuo riferimento all’ineffabilità e indefinibilità del destino, la cui improcrastinabile apparizione spinge continuamente la fauna del serial a sfiorarsi, a toccarsi o a collidere catastroficamente. Il contatto tra le diverse storie probabilmente è giostrato con minore ansia rispetto al film e questo comporta la nascita di una struttura molto meno angosciosa dell’originale, ma quello che più stupisce è che nel passaggio dal cinema alla tv si mette in atto un tentativo di dilatazione temporale decisamente in controtendenza rispetto alla norma. Una operazione anestetizzante contraria ai canoni televisivi ma che permette di godere appieno delle psicologie mutevoli e variegate presenti nella serie. La forma del lavoro quindi concorre all’esaltazione di stati d’animo e umori, si fa portavoce di sensazioni più che di concezioni stilistiche preventive. L’emersione del soggetto da una inquadratura quasi interamente sfocata o sfocata solo in certi punti dell’immagine è ad esempio un chiaro segnale dell’importanza data dagli ideatori alla struttura morfologica dell’essere umano. Quello che loro mettono in scena con questa e con altre tecniche, corrisponde ad una campionatura dettagliata delle espressioni di un volto, delle condizioni psicologiche celate dietro uno sguardo, delle diverse reazioni emotive prodotte dagli eventi. Per questo Crash somiglia ad un trattato di sociologia, perché riesce a scavare in profondità mettendo a nudo i problemi e le contraddizioni di qualsiasi organismo o gruppo, da quello più piccolo a quello più grande. E soprattutto riesce a farlo con quella pazienza e quella costanza certamente non utilizzabili all’interno di un film. La serialità diviene dunque vero e proprio valore aggiunto rispetto all’argomento trattato e all’indagine intrapresa perché permette di osservare, incamerare e finalmente analizzare i fenomeni scrutati con raziocinio e lucidità.

L’altro punto di forza di Crash è senza dubbio la narrazione messa a punto dagli autori. Un lavoro assolutamente clamoroso che, risentendo per certi tratti di una forte influenza shakespeariana, parte dalla struttura singhiozzante delle prime puntate, in cui le storie si intrecciano continuamente, per giungere, in corso d’opera, ad una costruzione più agonizzante, diretta espressione del passaggio ad una dimensione più psicologica e introspettiva. Questo voluto e progressivo cambio di registro rispetto alle originali esigenze del film (comunque rispettate e mai abiurate totalmente), ha l’obiettivo concreto di costruire un nuovo tipo di fruizione e di catturare conseguentemente anche un altro tipo di spettatore. Se la prima parte richiama, come detto, molte caratteristiche dell’opera originale, la seconda sembra invece subire molto le influenze di tanto altro cinema recente. Vedendo alcune puntate viene in mente ad esempio la rappresentazione del dolore e delle barriere umane di Babel, il cosmopolitismo di tanto cinema americano recente, la polifonia e la coralità del cinema altmaniano o anche la depressione sociale (e giovanile in particolare) di alcuni film di Van Sant. Nonostante i riferimenti appena effettuati vadano tutti in direzione del grande schermo, a testimonianza di quanto sia evidente la diversità di Crash dagli altri prodotti televisivi, è altresì possibile stabilire dei punti di contatto con un certo tipo di serialità innovativa, più specificatamente riconducibile a lavori come The wire o In treatment. Tutte operazioni insolite che, al pari di Crash, esulano dai generi classici per concorrere apertamente alla formazione di una new age televisiva. In tema di new age è doveroso citare infine la colonna sonora della serie, meditativa e coinvolgente come poche composizioni sanno essere, essa raggiunge livelli di intensità ed emozione che non esitiamo a definire straordinari. Mark Isham e Cindy O’Connor sono gli autori di un vero e proprio capolavoro, da gustare anche al di fuori della visione canonica della serie, magari scorrendo mentalmente le immagini più significative da essa presentate.

Probabilmente non a tutti sconvolgerà la visione di Crash, non tutti riceveranno sensazioni positive guardando la nuova serie targata Starz Network. Questo perché in essa è insita una connotazione mai accomodante nei confronti di uno spettatore (abituato invece ad essere rassicurato dalla tv) che invece di subire passivamente i compromessi lanciati dalla maggior parte degli altri prodotti, si ritrova in questo caso ad essere elemento attivo della fruizione. La sua fredda ma costante partecipazione nei confronti del prodotto gli permette infatti di non cadere mai nei rischi più conclamati dell’empatia bieca o della insulsa partecipazione rituale. La coscienza dello spettatore di Crash eleva ancora di più il prodotto stesso rendendolo assolutamente unico nel panorama televisivo odierno. Un’opera da ammirare puntata dopo puntata e da pensare come un unicum inscindibile, iniziato nel 2004 con l’apertura in grande stile del lungometraggio e completato oggi da una serie ancora più coinvolgente e accattivante.


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