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Americana - Fear Itself

Pubblicato il 25 novembre 2009 da Lorenzo Vincenti


Americana - Fear Itself

"The only thing we have to fear is fear itself".

Dopo un’attesa estenuante, lunga più di un anno e mezzo, e una parentesi gustosa rappresentata dall’anteprima di due episodi avvenuta durante l’edizione del RomaFictionFest 2009, approda finalmente nel nostro paese Fear Itself, serie televisiva dell’orrore in 13 episodi prodotta dall’americana Industry Entertainment e trasmessa (già da qualche settimana) ogni venerdì alle ore 23.00 sul principale canale della Fox (ch. 110).
Direttamente ispirata alle due stagioni di Masters of Horror con cui Fear Itself condivide, oltre ad alcuni registi, la casa di produzione appena menzionata e il mentore, nonché ideatore, creatore e maestro del genere, Mick Garris, questa nuova serie antologica si propone l’obiettivo di richiamare alla visione quella stessa tipologia di pubblico attraverso uno schema sostanzialmente invariato ed una strategia molto simile alla ormai prestigiosa collezione ispiratrice. La struttura si basa infatti sulla classica composizione di episodi differenti, indipendenti tra loro e tenuti insieme solo dal sapore, dal clima e dai ritmi del genere originario. Tutto il resto, come le logiche di queste operazioni prevedono, non può quindi che essere mutevole, al fine di ottenere una sostanza estranea alla normalità e una pluralità di espressioni, poetiche e linguaggi tipici del mosaico di impronta televisiva. Ecco così che, al pari delle antologie di MoH, registi differenti tornano ad alternarsi nuovamente dietro la macchina da presa per dare libera espressione alla loro intima concezione dell’orrore e per mettersi al servizio di un’operazione che vuole omaggiare un genere storico e al contempo ricercare le sue declinazioni più innovative, le infinite e diversissime esperienze da loro maturate all’interno dello stesso genere di riferimento (e non solo).
Le storie che ne escono sono per lo più originali, intraprendenti, sempre attente a tenere il livello della tensione entro i canoni del registro comunicativo proprio del mezzo televisivo. Esse, che siano totalmente sorprendenti per originalità o che tentino di ricalcare qualcosa di già visto con mezzi e tecnologie nuove, o che addirittura non riescano affatto a catturare l’attenzione dello spettatore per mancanza di incisività, di coerenza, di precisione, hanno comunque il merito di osare, di azzardare in una distinta direzione, di scommettere concretamente su un elemento e portarlo fino alla fine di un percorso breve ma intenso. Ce n’è per tutti i gusti all’interno della serie: si va dalla contaminazione tra tendenze differenti all’utilizzo di sottogeneri di successo, dal richiamo a una pratica un po’ accantonata come quella delle storie di fantasmi, all’utilizzo efficientissimo dell’horror psicologico, mai come in questi ultimi anni percorso e sfruttato nel migliore dei modi dalla cinematografia di settore. Se a queste si aggiungono poi le intromissioni delle solite dinamiche da thriller, della efficacia del sottogenere post-apocalittico (anch’esso sempre più in voga), della presenza di una spiritualità diffusa nell’intera serie e di una costante ricerca del sensazionalismo visivo, mosso principalmente da temi quali il cannibalismo o un neovampirismo post-moderno, il risultato non può che attestarsi su livelli di assoluto valore.

A dispetto dei risultati di ascolto non entusiasmanti ottenuti in America, l’operazione mostra infatti più spunti d’interesse di quanti siano in realtà i difetti evidenti. E questo si deve in primo luogo allo sforzo di Mick Garris, lungimirante nel saper insistere ancora una volta e con più audacia sul cammino virtuale aperto dai Masters of Horror e coraggioso nel saper contrastare i rischi di un’operazione all’apparenza opportunistica, sulla quale l’esperto burattinaio non ha mai dubitato ma anzi, al contrario, ha creduto e rilanciato costantemente in nome di un’idea precisa di format, di un macrogenere cinetelevisivo da difendere e divulgare tenacemente nella vastità della audience televisiva.
Fear Itself, in sostanza, si propone di intervenire là dove finiva l’effetto dei lavori precedenti. Essendo però concretamente distante dall’altezza delle antologie passate di Garris, questo nuovo lavoro si pone l’obiettivo di andare a colmare il buco lasciato dalla mega operazione ispiratrice e contrapporre, così facendo, i caratteri alti, sontuosi, perfetti di un lavoro impeccabile e raffinato ai contorni più schizofrenici, contorti, esuberanti di un’operazione dal carattere nazional-popolare. Alla luce di ciò, potremmo quindi affermare con veemenza che se da un lato gli episodi di Masters of Horror sentono maggiormente l’esigenza di apparire come film prestati alla televisione o, più semplicemente, come la manifestazione del moto del cinema verso il mezzo televisivo, dall’altro quelli di Fear Itself rappresentano più concretamente il tentativo della televisione stessa di inglobare il cinema, in questo caso di genere horror, scatenando quell’esplosione di senso e significato messa in mostra chiaramente in certi passaggi specifici della serie.

Questa sua natura apparentemente più bassa non deve indurre però a ritenere semplice un’operazione intrinsecamente ardua, appositamente costruita per apparire così da un gruppo di abili autori (registi o scrittori che siano) capaci di guidare l’inversione di moto precedentemente accennata e di farlo in maniera del tutto nascosta, quasi invisibile agli occhi del pubblico. Il loro impegno, in una direzione o nell’altra, in un modo o in un altro, è il punto di partenza da cui si forma l’interessantissimo corpus di opere al centro della serie. Che esso provenga poi da importanti registi del settore (pochi rispetto ai Masters) quali John Landis (il suo è senza dubbio un episodio esemplare per rigore stilistico e per l’utilizzo dei codici del genere), Ernest Dickerson (grande artigiano del cinema sempre più addentro ormai alle pratiche e ai tempi televisivi), Stuart Gordon (maestro tuttofare del genere qui alle prese con una storia interessantissima giocata su più livelli che si intrecciano), probabilmente i più abili mestieranti tra gli artisti interpellati, o da alcune ex promesse del cinema confermate nel tempo quali Mary Harron (il più psicologico degli approcci per la regista di American Psycho e di Ho sparato a Andy Warhol?), Ronny Yu e John Dahl, non ha poi molta importanza alla luce di una considerazione generale che senta il bisogno di guardare all’insieme e non alla qualità del singolo episodio.
Di contro, si acquista di rilevanza invece nel momento in cui accanto alle personalità citate si vanno ad elencare gli altri nomi del cast tecnico. Ossia quelli dei professionisti più giovani, più intraprendenti e più originali. Coloro che in primo luogo rappresentano l’elemento di differenziazione più visibile e chiaro rispetto alle antologie precedenti (in cui tutti erano veri e propri maestri) e che in secondo luogo agevolano il cambio di marcia nei confronti di un linguaggio da rinnovare e adattare rapidamente agli schemi televisivi contemporanei. E’ proprio grazie al contributo di un gruppo di cineasti rampanti come Darren Lynn Bousman, Breck Eisner, Rupert Wainwright, Rob Schmidt e di scrittori rapidi, sagaci, rivoluzionari, capaci di affermarsi come gli architetti primi di una rifondazione anche narrativa del genere horror, che Fear Itself si ammanta di quella bandiera nazional-popolare citata in precedenza e si concede definitivamente alla spinta generazionale impartita sin dalla fase di ideazione da Garris e dai produttori della serie Andrew Deane, Adam Goldworm e Ben Browning. Il risultato, come intuito da quanto sinora sostenuto, appare assolutamente affascinante, conturbante, efficace nel colpire al cuore lo spettatore. Un risultato non certamente paragonabile ai livelli degli episodi di Masters of Horror, del quale preferisce sfruttare la scia per attestarsi in zone diverse piuttosto che ricalcarne fedelmente le orme, ma comunque ben amalgamato, ragionato, prodotto e concluso. Un’opera di assoluto valore che non lascia indifferenti e che, malgrado qualche piccola battuta di arresto o titubanza o carenza riscontrabile all’interno dei singoli episodi, merita di essere analizzata attentamente al pari dei suoi più illustri predecessori. Perché anche qui, come in quei casi, è possibile trovare e riconoscere piccoli gioielli del genere, magari ancora grezzi, talvolta spigolosi, ma senza dubbio da vedere e rivedere più volte con attenzione per apprezzarne il senso più intrinseco e la forza della forma esteriore.


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