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Americana - Generation Kill

Pubblicato il 22 giugno 2009 da Lorenzo Vincenti


Americana - Generation Kill

Ci eravamo lasciati con le avventure sottotono di Jimmy McNulty, Avon Barcksdale, Proposition Joe, con lo spaccio di droga e la corruzione di Baltimora, con i traffici illeciti e le dinamiche incancrenite del lato oscuro d’America. Eravamo rimasti a The Wire, a quel suo mix ben orchestrato tra realismo e teatralità messo in scena sul palcoscenico nascosto quanto effervescente di una metropoli spaccata da piaghe sociali insanabili, da divisioni classiste e sostenuta da un ecosistema difficoltoso ma autonomo, in cui ognuno si ritaglia il suo spazio e si dichiara pronto a difenderlo in nome della propria sopravvivenza. Ci ritroviamo oggi, a pochi giorni dall’inizio della terza inedita stagione di quel clamoroso affresco, ad entrare nel vivo di un altro tipo di “guerra”. Vera questa volta, con le assurde dinamiche che animano la solita macabra coreografia, gli scontri a fuoco drammatici e le tattiche di sopraffina strategia militare. Un mondo apparentemente distante da quello di The Wire ma costruito con la medesima precisione dagli stessi geniali autori David Simon ed Ed Burns.

Generation Kill, questo il nome del lavoro appena approdato sui nostri teleschermi (Steel), è una miniserie in sette parti che racconta in maniera dettagliata la recente invasione statunitense nell’Iraq di Saddam Hussein. E’ una cronaca fedele dei giorni di avanzata continua in cui le forze militari americane ribaltarono il governo dittatoriale del leader iracheno e riaffidarono il paese alla democrazia esportata dal governo Bush. La chiave di accesso all’argomento è la stessa utilizzata dai due creatori per The Wire: la testimonianza diretta. Se per la serie essa proveniva però dalla concreta esperienza dei due sul territorio della propria città, qui invece l’osservazione sfruttata è quella del famoso reporter di Rolling Stone Evan Wright, all’epoca aggregato alla prime truppe entrate in Iraq e autore nel 2004 dell’omonimo libro da cui è tratto il lavoro televisivo. Coinvolto nella genesi di questa opera, Wright si è dichiarato disponibile a mettere a disposizione delle doti di Burns e Simon la sua incredibile esperienza, contribuendo in modo considerevole alla realizzazione della prima e più concreta testimonianza che un’opera di finzione abbia fornito su quel conflitto.

Il punto di vista scelto come iniziale introduzione nella miniserie è proprio quello dell’audace giornalista americano. Non solo perciò semplice elemento aderente alla realtà dei fatti ma anche strumento narrativo capace di guidare l’accesso del pubblico al mondo misterioso dei marines. La sua però è una influenza che potremmo definire indiretta, in quanto anziché esplicitarsi attraverso un racconto in prima persona sembra più che altro condizionare la percezione dello spettatore, filtrare ciò che di concreto avviene sul campo e restituirlo attraverso un evidente condizionamento delle immagini, dei suoni e delle emozioni rilasciate dall’opera. Nella serie vediamo continuamente il giornalista alle prese con i suoi appunti, lo vediamo guardare, osservare, senza mai invadere più di tanto gli spazi altrui. Il suo approccio voyeuristico silenzioso porta automaticamente lo spettatore a giustificare la presenza di sequenze apparentemente statiche, in cui campi lunghissimi, primi piani e dettagli si sostituiscono ai movimenti concitati del conflitto per restituirci i momenti intimi e le calde pulsazioni che si celano dietro la freddezza della guerra. Il risultato della visione sembra quindi per larghi tratti nascere proprio dalla moltiplicazione continua dell’esperienza personale di Wright. Uno sguardo che diventa, con il passare del tempo, il germe da cui proliferano sullo schermo tante piccole realtà vissute all’interno della compagnia. Superata la tipica difficoltà d’ambientamento iniziale dei lavori di Burns e Simon, lo spettatore riesce infatti ad immergersi con uno spirito sempre più famelico nelle architetture complesse del corpo d’armata più famoso del mondo. Riesce a recepire il suo linguaggio, a capire il funzionamento del battaglione, le diverse tecniche d’assalto, l’equipaggiamento e gli strumenti in dotazione. Impara le regole d’ingaggio, i movimenti di un nucleo durante una missione e così via fino a sentirsi parte integrante di quel complesso mondo. Questa funzione didattica però non rimane fine a se stessa ma si alterna ad una inevitabile dimensione emozionale, attraverso la quale ansie, preoccupazioni, difficoltà solite del soldato tipico superano il confine dello schermo e, con una forza inaudita, invadono la fruizione dello spettatore. Tale movimento di aggressione nei confronti del pubblico è dovuto, come al solito, all’enorme lavoro di scrittura realizzato dagli autori, capaci in questa occasione, così come in passato, di restituire nel miglior modo possibile anche i più piccoli elementi di un’avventura sconosciuta; o conosciuta solo in parte grazie alle tante cronache giornalistiche arrivate sino a noi.

Il metodo del racconto sviluppato è lineare ed è come se poggiasse la sua evoluzione sulla superficie topografica dell’Iraq da conquistare. Gli autori affiancano in questo modo l’incertezza vissuta durante una missione di guerra, il susseguirsi di differenti azioni militari e lo stato di assoluta precarietà emotiva creato dall’incedere dei mezzi blindati con la rappresentazione di una storia in continuo divenire, mai piegata su stessa ma sempre gravata da una minaccia incombente che da un momento all’altro potrebbe farla deviare verso direzioni impreviste. Questa struttura che potremmo accostare a quella dei videogame si basa su segmenti autonomi da circa un’ora, ciascuno con il proprio arco narrativo autonomo e tutti chiusi da un breve epilogo (proprio come nei giochi di questo tipo). Consapevoli però della compiutezza narrativa e drammaturgica a cui una serie deve aspirare (a differenza dei videogame), Burns e Simon non riducono il loro prodotto ad una inutile sequenza di avventure isolate, ma costruiscono imprescindibili elementi di raccordo e congiunzione tra le puntate. Dei ponti virtuali ma molto consistenti che permettono di canalizzare la continua tensione generata dall’opera e portare avanti un sub-plot in cui si concretizza l’evoluzione o l’involuzione dei personaggi raccontati. L’efficacia di tale linea narrativa si misura nelle sequenze di apparente vuoto disseminate nell’intera opera. Momenti che nella maggior parte dei casi corrispondono agli attimi di pausa del battaglione o agli spostamenti sui mezzi militari e nei quali l’indottrinamento decade clamorosamente a tutto vantaggio di un’intromissione voyeuristica. In questo modo vengono rivelate, con l’aiuto di un ritmo molto più compassato, le tante psicologie del gruppo, le debolezze, le manie delle diverse personalità indagate. Se ne ascoltano i pensieri e le preoccupazioni. Si intrecciano storie umane, si mettono a confronto estrazioni sociali differenti e si accendono scontri di natura razziale o religiosa. Il pubblico entra in sintonia con la follia e la disperazione del marine tipico, allo stesso modo in cui in passato è riuscito ad entrare nelle dinamiche interne della polizia e della criminalità di Baltimora. Ma se in quel caso la fruizione riempiva un vuoto attraverso l’indagine di un contesto mai conosciuto e la descrizione di dettagli solitamente esclusi dal poliziesco classico, in Generation Kill si potrebbe carpire l’influenza, sulla forma, sulle tematiche e sulla struttura intera dell’opera, di una certa tradizione recente, cinematografica e televisiva, abituata ad includere l’evoluzione delle faccende mediorientali. Il pensiero corre a Redacted di Brian De Palma, vicino per la crudezza del linguaggio e per la ricostruzione alienante delle psicologie umane al fronte, a Jarhead di Sam Mendes (anch’esso tratto da una esperienza diretta questa volta legata ad un marine della prima guerra del Golfo), ai documentari dedicati all’argomento o, per concludere, a Casa Saddam. Una miniserie (anch’essa targata HBO) molto diversa dall’opera di Simon, Burns e Wright, che potremmo considerare però, al fianco di essa, come la prima parte di un dittico definitivo incentrato su un periodo storico ben preciso (d’altronde le ultime battute di House of Saddam si legano indissolubilmente alla storia raccontata nella nostra serie), ottimamente ricomposto dal coerente percorso compiuto dal network televisivo statunitense.

Oltre all’indagine dettagliata della genesi di una invasione, l’elemento che rende Generation Kill un lavoro degno di nota è la sua effettiva capacità di restituire anche lo spettro emozionale che sorge a latere della missione di guerra. Uno dei personaggi principali della serie ad un certo punto, parlando con un suo compagno, definisce l’esperienza del conflitto come un enorme sovraccarico sensoriale a cui si è sottoposti in maniera coatta. Questo bombardamento dell’apparato sensoriale colpisce quindi il soldato nella sua esperienza sul campo, ma contemporaneamente coinvolge anche lo spettatore, costantemente minacciato e sopraffatto da un coacervo di deflagrazioni visive e auditive provenienti da più parti. L’invasione nei territori iracheni diventa pian piano un invasione dell’animo umano, territorio di conquista per una forma dell’opera molto aggressiva. Spari, urla, lamenti, il cigolio dei carri armati; immagini tremolanti, notturne, colori sgranati, inquadrature che si ricompongono cercando di trovare un equilibrio difficile da raggiungere nel caldo del deserto. Tutto questo compone la sovrastruttura angosciosa di Generation Kill. Tutto questo contribuisce a minare la sicurezza dello spettatore, non solo travolto nelle viscere dallo straripamento di questi input audiovisivi ma anche scosso intellettualmente da un parallelo discorso di denuncia che non poteva di certo mancare in un prodotto del genere. Un obiettivo in questo caso raggiunto però senza la solita immediatezza (utilizzata nei tanti film di guerra), ma attraverso un percorso più nascosto, sottile, fatto di sguardi, doppi sensi, riflessioni. Una conquista volutamente lasciata all’inerzia dell’evoluzione narrativa, il cui incedere progressivo riesce magistralmente a svelare, puntata dopo puntata, le crepe dell’istituzione militare, la sua insana gerarchia (elemento ereditato da The Wire), la negatività della guerra, dell’invasione di un territorio, l’esaltazione che anima il soldato e la sua contrastante fragilità. Insomma una decostruzione lenta e graduale delle reali motivazioni poste alla base di missioni del genere, sulle quali pesa, come ci fa chiaramente capire Generation Kill, un’approssimazione a volte sconcertante, un’assurdità preoccupante ed una schizofrenia purtroppo incontrollabile.


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