Americana – Helter Skelter

Era un fan dei Beatles, Charles Manson: un uomo che nel 1969 portava sulle spalle trentacinque anni di vita, diciassette dei quali trascorsi in prigione; un hippy che aveva fatto in tempo a godersi la Summer of Love del ’67, fondando una comunità nella quale svariati ragazzi si lasciavano irretire dal carisma di chi si considerava come un nuovo Gesù Cristo. Un figlio dei fiori sui generis, Manson: odiava i neri e spingeva i suoi adepti a compiere rapine. Fino a quando li convinse a commettere degli omicidi: oltre trenta, si dice, ispirato da presunti messaggi subliminali contenuti in alcune canzoni del White Album (Helter Skelter, Piggies e Revolution 9).
Helter Skelter (ossia ’confusamente, alla rinfusa’) è probabilmente la canzone più dura dei re del pop: una sua cover, assai meno interessante della versione originale, apre e chiude un film per la tv lungo oltre due ore e datato 2004 che per la prima volta verrà trasmesso in Italia da Studio Universal tra pochi giorni, il 9 agosto, nel giorno in cui ricorrono i quarant’anni dal massacro di Bel Air nel quale vennero uccisi Sharon Tate (giovanissima moglie di Roman Polanski, all’ottavo mese di gravidanza) e quattro suoi amici. L’opera è basata sul libro di Vincent Bugliosi, pubblico ministero nel processo contro Manson e alcuni dei suoi seguaci, dal quale il regista John Gray (che di lì a poco creerà Ghost Whisperer) ha tratto una sceneggiatura che non indaga il passato di Manson, preferendo piuttosto soffermarsi sugli avvenimenti colti nell’acme della loro parabola: il 1969 e il 1970, anno del processo.
In questo periodo storico la Summer of Love era già un lontano ricordo, mentre i Rolling Stones celebravano la fine del Sogno con le inquietanti Sympathy for the Devil e Midnight Rambler e incitando alla rivolta politica e sociale attraverso Street Fighting Man. Quel tanto decantato sogno, però, in America era stato interrotto più volte: in particolare a causa degli attentati ai due Kennedy, a Malcolm X e a Martin Luther King. Probabilmente le sconvolgenti vicende della cosiddetta ’Manson Family’ colpiranno l’opinione pubblica americana come mai prima di allora: da una parte Manson sarà arbitrariamente collegato alla Controcultura, ma dall’altra forse si comincerà a comprendere come l’innocenza di un intero Paese sia ormai scomparsa o come, piuttosto, essa sia stata solamente una lunga illusione. In effetti suoneranno come una difesa e, allo stesso tempo, un atto d’accusa, le parole di un Manson (Jeremy Davies, il Daniel Faraday di Lost) che dirà a Bugliosi di non avere mai plagiato nessuno, perché sarebbe stata la società (la famiglia, la scuola, i mass-media) ad allevare quei piccoli mostri, che sarebbero giunti a lui ormai già formati. Chissà se questa teoria può cozzare con la posizione dell’avvocato, secondo il quale i ragazzi coinvolti non avrebbero avuto alle spalle trascorsi particolarmente problematici. Mentre, anche se nel film non se ne farà menzione, Manson è cresciuto accanto a una madre sbandata, prima di essere affidato, ancora bambino, a degli zii, due fanatici religiosi.
L’intera performance di Davies vive grazie a una recitazione affettata, mentre il corpo viene spesso ripiegato su sé stesso, come se volesse trovare pensieri nascosti in chissà quale luogo, realizzando una inquieta e controllata compostezza che mette in scena un delirio freddo e raziocinante, e per questo ancora più sinistro. Intanto Gray si sbizzarrisce, a volte disegnando inquadrature sghembe e movimenti complessi, con la macchina in spalla per carpire gli attimi più concitati, creando uno stile che non presenta troppe affinità con la gabbia televisiva che spesso imprigiona i lungometraggi. Frequenti diventano poi i brevi flashback che riportano alla mente i vari omicidi commessi, aggiungendo sempre qualche ulteriore tessera al mosaico della visione, fatto che rende la narrazione più brillante. Fuori luogo appare, invece, un certo abuso di segmanti filmati in negativo, creati con l’intento di rendere più drammatici gli eventi rappresentati – mantenendo, però, un certo pudore - sia per rappresentare fino in fondo l’incunearsi di una accecante follia nelle menti degli assassini.
Il brivido più profondo, però, si avrà quando una Sharon Tate ormai morente, con l’ultimo filo di voce rimastole, implorerà una delle sue carnefici di salvare il bambino, strappandolo a quel grembo che non potrà più proteggerlo, ma che purtroppo diventerà la più crudele delle condanne.
