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Americana - In Treatment

Pubblicato il 25 novembre 2008 da Gaetano Maiorino


Americana - In Treatment

La figura dello psicanalista è da sempre peculiare nella società americana metropolitana. Nella realtà, come sul grande e sul piccolo schermo, sono innumerevoli gli statunitensi che ricorrono alle cure dello “strizzacervelli”. Necessità o mania, suggestione o reale cura ai problemi della mente, la terapia è un fenomeno che non passa inosservato e per questa ragione non poteva essere ignorato dalla produzione seriale televisiva. La HBO sceglie il navigato David Byrne come proprio analista e gli affida quattro pazienti problematici. Ne viene fuori In Treatment, primo esempio di terapia televisiva: quarantatre episodi, quarantatre sedute di analisi, in onda cinque giorni a settimana per due mesi e mezzo. La critica a stelle e strisce premia con due Emmy e l’esportazione sui nostri canali satellitare è immediata. Il regista Rodrigo Garcìa, che dirige quasi tutti gli episodi ed è anche produttore della serie, si ispira a un telefilm israeliano, Bitpul, e lo riadatta alla realtà americana, facendo dei pazienti del dottore newyorkese Paul Weston la cartina di tornasole di ansie, paure e desideri dell’americano medio contemporaneo. Laura, trentenne in procinto di sposarsi che si innamora dello psichiatra; Alex, pilota di aerei da guerra appena rientrato dall’Iraq; Sophie sedicenne promessa della ginnastica che ha subito un incidente a entrambe le braccia; Jack e Amy, coppia in crisi che cerca disperatamente di avere un bambino. Sono questi i quattro incontri che dal lunedì al giovedì impegnano Paul. Il venerdì è riservato alla propria di terapia, con Gina, suo supervisore in gioventù durante il tirocinio, e valvola di sfogo per i suoi problemi dopo una settimana spesa a curare quelli altrui. La precarietà dei sentimenti, l’incertezza della vita di coppia, l’instabilità affettiva nella società contemporanea che porta all’egoismo e all’affermazione personale, la necessità di spingersi oltre i propri limiti, sono invece le tematiche principali che gli autori presentano sotto forma di disagi individuali. Dialoghi su dialoghi, mezzora al giorno di parole, trattenute, sussurrate, smascherate, pronunciate, urlate. Sfoghi individuali di personaggi archetipici incalzati dalle domande sempre inquisitorie di Paul. Ma oltre alla sfera privata, si parla anche di guerra e della sua inutilità, delle problematiche legate all’adolescenza, di famiglia, in un ottimo amalgamarsi di necessità di intrattenere e volontà di far pensare.

La scenografia è essenziale, composta esclusivamente dallo studio del medico con poltrona e classico divano per i pazienti, uno spazio chiuso circoscritto, un luogo sicuro, mostrato con lente carrellate che accarezzano il mobilio pregiato e le suppellettili bizzarre. Un luogo privato, una tana a cui Paul nega l’accesso perfino alla moglie. La scena di un teatro su cui domina un solo attore e dove gli altri si alternano man mano, andando a intaccare gli equilibri per creare così l’azione, un’azione fatta però sempre di parole e di emozioni, soltanto raramente di slanci fisici. La regia si adatta necessariamente all’alternarsi delle battute dei personaggi della puntata, campi e controcampi si susseguono per tutta la durata degli episodi. Impossibile inventare molto di diverso sul piano registico con un soggetto simile. Anche quando si esce dallo studio di Paul si resta in un interno, lo studio di Gina, spazio che prevede le stesse regole visive del precedente. Rarissimi gli esterni che si limitano all’atrio e al viale al di fuori dello studio medico. Dal punto di vista distributivo è invece curiosa la scelta di far coincidere, almeno nella programmazione americana, ogni paziente con un giorno e un orario differenti anche nella proiezione televisiva. Ogni lunedì c’è la terapia/puntata di Laura, ogni martedì quella di Alex e così via. All’inizio si ha quasi l’impressione di poter seguire separatamente ciascuna storia dall’inizio alla fine, ma in realtà dopo poche puntate si deve rinunciare a questa fruizione alternativa in quanto, sebbene in contatto solo in maniera marginale tra loro, ogni personaggio influenza l’altro, soprattutto per quel che riguarda le reazioni che Paul ha con ciascuno. Un prodotto di qualità, ma per palati fini, non adatto al grande pubblico, più vicino a chi considera la serialità non più puro intrattenimento. Indicato per lo spettatore che, seduto sul divano del proprio soggiorno, si lascia ipnotizzare dallo schermo quasi come se quella fosse la sua terapia quotidiana, per poi spegnere e la tv e fermarsi a riflettere. E per il 2009 è già prevista la seconda serie di sedute.


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