Americana - Lie to me

Atteso con ansia dagli appassionati del piccolo schermo e fresco di riconferma da parte della Fox, che ne ha annunciato la continuazione nell’upfront 2009/2010, è giunto finalmente il momento di accogliere anche nel nostro paese uno dei prodotti più interessanti fuoriusciti dai recenti palinsesti della tv di Murdoch. Come avrete intuito stiamo parlando di Lie to me, la serie televisiva creata da Samuel Baum il cui pilot è stato presentato ieri nell’ambito del concorso del Roma Fiction Fest 2009 dedicato alle serie tv lunghe. Tutto incentrato sui lineamenti inconfondibili di Tim Roth e sulla sua straordinaria capacità di immedesimazione nel ruolo, questa nuovissima serie tv trova la sua fonte d’ispirazione negli studi realizzati durante il secolo scorso da Paul Ekman, uno psicologo e antropologo molto noto nell’ambiente che dimostrò come le microespressioni facciali dell’essere umano non fossero determinate dal fattore culturale dell’individuo stesso, così come sostenevano altri eminenti studiosi, ma dalla sua struttura biologica. Sulla scia dell’evoluzionismo darwiniano Paul Ekman fu in grado perciò di affermare il carattere naturale ed incontrollabile di tali reazioni e ne sviluppò addirittura un sistema di catalogazione denominato FACS (Facial Action Coding System) grazie al quale è stato possibile scoprire nel tempo le diverse tipologie di reazioni e la gamma di sentimenti celate dietro le eventuali bugie pronunciate dal genere umano. Anche Carl Lightmann, il protagonista della serie interpretato da Roth, è un esperto della teoria di Ekman che basa la propria esperienza sullo studio antropologico effettuato anni addietro sul campo, a contatto con tribù di ogni tipo e di diversa collocazione geografica. Un lavoro svolto in maniera talmente approfondita da consentirgli oramai di captare senza grosse difficoltà la bugia di una persona e smascherarla, assieme all’aiuto di alcuni collaboratori, per conto dei clienti privati o pubblici che si rivolgono alla sua società. Molti infatti sono gli individui ed i soggetti che nella serie si dimostrano interessati ai metodi della Lightman Group e questo avviene perché l’insolita efficienza di certe pratiche permette la risoluzione di questioni intricate o pericolose senza dover necessariamente passare per la prassi lenta e farraginosa dell’indagine classica. In fondo quando agisce un essere umano il ricorso alla menzogna diviene praticamente scontato e su questo collegamento quasi automatico si inserisce l’arte di Lightman e soci, tempestivi nel saper cogliere la frazione di secondo in cui avviene la microespressione decisiva, il gesto inconsulto di una mano o la postura del corpo sbagliata. Consapevoli della fragilità dell’essere umano di fronte ad emozioni praticamente impossibili da gestire l’equipe guidata dal magnifico Tim Roth è sempre pronta ad approfittare della situazione e a cogliere il minimo errore di un presunto omicida, di un politico corrotto o di un carcerato pentito. Il margine di errore è praticamente nullo. Esiste solo la possibilità che ci possa essere una maggiore resistenza da parte di un individuo particolarmente solido, ma è sufficiente in quel caso che Lightman utilizzi i suoi metodi più strampalati per far cedere definitivamente l’interlocutore di turno e dare risoluzione ad un caso apparentemente irrisolvibile.
Disprezzo, vergogna, rabbia, felicità. Ognuna di queste emozioni lascia sul volto di un individuo segni talmente inconsistenti da non essere, il più delle volte, nemmeno percepiti dall’interlocutore. Nel raccontarci storie molto interessanti, che non cadono nella classica routine attribuibile agli schemi del poliziesco, Lie to me è in grado di presentare in maniera molto accattivante una sorta di trattato ekmaniano sulle risultanze espressive di tali emozioni. Baum è infatti abile nel saperle evocare di continuo durante lo svolgimento dei singoli casi attraverso l’utilizzo di alcuni frame molto significativi in cui compaiono, in una sorta di catalogo esplicativo e spettacolare, le microespressioni facciali di personalità di spicco della storia recente americana e non solo. Rappresentazioni colte nell’istante preciso in cui un’emozione incontrollata ne fissava sul volto i sintomi espressivi di una bugia latente. Ci sono ad esempio immagini di vergogna dell’ex presidente Bill Clinton scattate durante la conferenza stampa sul sexgate, le espressioni di rabbia scolpite sul volto di George Bush o le immagini sconcertanti tratte dal processo di O. J. Simpson. Microframmenti stranianti quindi, inseriti all’interno della diegesi come strumento di lavoro di Lightman o utilizzati da Baum nel montaggio finale come brevi efficaci parentesi da concedere al pubblico per evadere in maniera giocosa dalla visione (mantenendo comunque quella necessaria aderenza reclamata dalla narrazione). Il creatore è perciò bravo nel saper costruire un impianto visivo adatto al gioco della messa in scena, adoperando, parallelamente a quanto sinora detto, intensi primi piani tesi a scandagliare volti e corpi indagati e a sollecitare la partecipazione dello spettatore all’indagine da svolgere. La sua è una tattica fine e ben congegnata concentrata anche sulla costruzione di una dialettica molto forte tra campi contrapposti, simbolo quest’ultimo del poliziesco classico che nell’occasione diviene ancora più significativo del flusso di co(no)scienza instaurato tra chi interroga e chi viene interrogato. In maniera proporzionale all’intensità degli interrogatori e del montaggio calibrato su cui essi si basano, l’intera equipe di autori e registi cerca di dare valore alla consistenza dei dialoghi, posti quasi sempre in scia delle immagini (il fattore visivo è molto più determinante), impreziosendoli con una rapidità diversa dalla indolenza dei polizieschi e con una incisività ed una chiarezza opposta al carattere oscuro ed ingannevole della bugia. Elemento quest’ultimo comunque preponderante su cui si alimentano oltre ai singoli casi da risolvere nelle diverse puntate anche le vite private dei protagonisti, molto spesso costretti a doversi confrontare anche nell’intimità con una figlia bugiarda o con un compagno falso e misterioso. Con il rischio quanto mai concreto di ritrovarsi a mischiare involontariamente il lavoro (e le doti da possedere per realizzarlo al meglio) con la sfera personale di ciascuno di loro. Anche in questi attimi di evasione dalla mission della serie televisiva emerge tutta la qualità di un prodotto scritto molto bene e basato su un refrain continuamente giocato (e il più delle volte risolto) sullo scontro sottile tra sincerità e falsità, tra bugia e verità. Uno scontro al contempo intimo e universale. Qualcosa che riguarda tutti, che tutti vivono sulla propria pelle e che proprio per questo non può non coinvolgere nella rappresentazione unica e disorientante fornita da una serie innovativa e coraggiosa come Lie to me. Non fatichiamo a credere che, dopo la passerella sull’Orange Carpet romano, la serie targata Fox possa rappresentare, in previsione futura, una delle più gradevoli novità della prossima stagione televisiva nostrana. I requisiti affinché questo possa avverarsi ci sono. Ed anche il livello della produzione è in sintonia con l’ampia offerta (sempre più ampia) trasmessa dalle nostre piattaforme televisive.
