Americana – Mental

La nuova serie in onda su Fox ogni giovedì in seconda serata, più che di vita propria sembra esistere grazie a qualcun altro: a Dr. House, nello specifico, il capolavoro le cui repliche vengono trasmesse poco prima, coattivamente ri-preso in quanto scomoda pietra di paragone, superficie nella quale riflettersi, dove la destra diviene la sinistra, masterpiece scomodato al fine di distaccarsene, ma senza successo alcuno, tanto che verrebbe quasi il dubbio di non avere visto qualcosa di ’reale’ quanto, piuttosto, un simulacro degno di una caverna platonica.
Ci troviamo a Los Angeles, subito al centro dell’azione, senza esitazioni, dopo brevi e veloci carrelli, zoomate e messe a fuoco di presentazione che ci portano fin dentro il ’Wharton Memorial Hospital’. Jack Gallagher (Chris Vance) è il nuovo direttore del reparto psichiatrico, atteso da tutti, proveniente dal Vermont – non così lontano, in fondo, dalla Princeton di House - con addosso quasi un’aura di mistero, scelto dalla direttrice, la dottoressa Nora Skoff (Annabella Sciorra), con la quale scopriremo avere avuto una relazione in passato. E l’ingresso in scena di Gallagher avverrà senza convenevoli: quando un degente in preda a visioni si toglierà i vestiti e darà in escandescenze nella sala d’attesa, irrequietamente schizofrenico e preso di mira dalla pistola di un poliziotto, il prode Jack interverrà, denudandosi pure lui, diventando (quasi) come l’altro, per convincerlo a vivere ancora, per combattere, guarire magari, in cambio chiedendo unicamente la sua fiducia.
La Fox imita sé stessa, perché entrambe le serie sono state prodotte dalla major di Rupert Murdoch, come se questa avesse voluto esaurire tutto il ventaglio del possibile. Perché la ’Medical Division’ di House riposa in un fantomatico ospedale universitario in New Jersey; mentre, invece, la California di Mental è lontana mille e più miglia, ossia quelle migliaia di chilometri che separano le due coste degli Stati Uniti, mai stati così frammentati, lontani e distanti. A est un uomo, un misantropo più che altro, claudicante e nondimeno veloce di pensiero, interessato alla malattia e per nulla al paziente – ’paziente’ nel vero senso della parola - convinto che tutti mentano; qui un quarantenne con un vigore anche fisico, capace di entrare nella mente di chi sta curando, di provare empatia, cercando di vedere attraverso gli occhi degli altri, senza dar loro medicine su medicine. House, così interessato alla macchina-corpo, è il perfetto mentore di un complesso gioco del tutto intellettuale. Gallagher vorrebbe trovarsi al centro di un divertimento altrettanto accattivante, ma tutto è talmente e perfettamente convenzionale da farlo apparire come la messa in scena di una menzogna totalmente inopportuna. E il pensiero è pane adatto molto più ai denti di Gregory che a quelli di Jack, protagonista di intrecci dalla risibile complessità, dove le linee sono eccessivamente dritte, eroe fin troppo positivo e senza charme in uno schema caratterizzato da vasi che non comunicano appieno tra di loro, poiché eccessivamente autoconclusi. Mentre House è umano, così umano, ancorché in modo eccezionale: e perciò è un catalizzatore di imprevedibilità che deve essere messa in ordine, emblema di un universo lucidamente folle.
Unico punto di contatto tra i due è l’approccio non ortodosso alla vita e, quindi, alla professione (o viceversa, se si preferisce, in un perfetto sovrapporsi di arte ed esistenza): entrambi eretici rispetto alla vulgata che li circonda e filosofi anticonformisti che portano la luce all’interno della caverna. Peccato, però, che solamente Uno potrà condurci lontano dalle tenebre dell’ignoranza. E certamente il suo nome non sarà Jack.
