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Americana - Southland

Pubblicato il 10 marzo 2010 da Sergio Sozzo


Americana - Southland

Diretto e prodotto da un nugolo di professionisti che provengono dall’avventura comune di ER, questa creatura della sceneggiatrice di Public Enemies e Schegge di Paura Ann Biderman eredita proprio dai Medici in prima linea l’anima gravosa e il tono morale da drammone didascalico che sono da sempre la sottotraccia nemmeno tanto nascosta delle concitate vicende del gruppo dei personaggi in camice, che sfrecciano nel labirinto di corsie e corridoi dell’ospedale di Chicago così come attraversano l’umanità intima e pubblica insieme di storie esemplari rivolte a formare un ritratto doloroso ma fiero, orgoglioso, della Nazione.

Southland modifica il campionario, ma non la compassata seriosità con cui ci si approccia ai temi, con buona pace di chi amerebbe vedere in questa versione politically correct del superbo The Shield una giustificazione qualunque e tradotta in azione al forsennato sballonzolare della macchina da presa, di ben poca utilità data la sostanziale staticità degli apologhi messi in campo: 10 giornate al seguito del dipartimento di Polizia di Los Angeles, con tanto di star in ascesa (il Ben McKenzie di OC nella parte della recluta) e campionario di partecipazioni illustri (in Italia, dov’è trasmesso da un mese a questa parte su AXN, è appena passato l’episodio con uno sfavillante Tom Sizemore).

Come l’oramai celebre aneddoto sulla madre che frigge il figlio neonato che non la smetteva di piangere dentro al forno al microonde (’Devo tenermi la mia angoscia. La devo proteggere. Perché mi serve: mi mantiene scattante, reattivo, come devo essere’), che il detective Al Pacino racconta alla propria donna in Heat di Michael Mann, i vari procuratori, poliziotti di pattuglia, investigatori e assistenti sociali di Southland non fanno che trovarsi dinanzi la turpitudine, la bassezza e l’inettitudine morale della popolazione degradata di una città nei fatti ingovernabile (il cartello iniziale su quanto siano pochi gli agenti per strada rapportati all’estensione in metri quadri di L.A. è fin troppo esplicito), in cui è l’ineluttabilità di un destino cinico l’unica costante che regge le fila dei quadretti di civile sdegno inanellati dalle puntate con composta compassione autoprocurata da titoli del sommario di un tg di prima serata.

Resta interessante principalmente l’idea dell’incipit in sostanziale flash forward, in cui piombiamo puntualmente in medias res nel bel mezzo della sequenza conclusiva della puntata, lasciata sul punto di chiudersi per tornare indietro a ’12 ore prima’, all’inizio del turno di lavoro dei protagonisti: come a dimostrare ancora una volta che tutto questo stile sgraziato da reportage subitaneo e sgranato, questa preoccupazione di contegno sociale d’estrazione borghese, questi personaggi giusto schizzati perché lasciati sfuggire come istantanee impossibili da mettere a fuoco in quanto fermate in movimento, nonostante ostentino spontaneità e ultrarealismo con ferma convinzione, altro non siano che nuove, rassicuranti, concilianti, trovate di scrittura.


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