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Americana – The Chicago Code

Pubblicato il 15 luglio 2011 da Marco Di Cesare


Americana – The Chicago Code

Lo skyline della città ventosa rappresenta la stratificazione dell’organizzazione sociale su cui si basa un’intera comunità, simbolo di una nazione dove miriadi di grattacieli vivono accatastati l’uno accanto all’altro, dalle viscere della terra inerpicandosi fin quasi a lambire i cieli luminosi come le nubi più profonde e oscure. Allo stesso modo la cittadinanza che si distende lungo le rive del lago Michigan viene osservata attraverso uno sguardo che si muove secondo il percorso seguito da una panoramica che procede dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso, in un moto perpetuo e continuo che va a rivelare le forme dell’eterna gerarchia che lega quegli animali che amano definirsi come umani. Un movimento che persegue una linearità verticale al quale se ne accompagna un altro, ben più vorticoso, che ha a che fare col brulicare di vita ai piedi di quegli affascinanti mostri di vetro e acciaio. Poiché al piano terra le strade sono attraversate da corpuscoli in perenne attraversamento, sulle strade che collegano le due facce della metropoli: quella inondata dalla luce del sole e quella nascosta nell’ombra.
Piani alti e piani inferiori: comunque sempre un’opposizione, una dualità senza troppe ambiguità di senso (soprattutto inizialmente), nella quale le parti in questione si incontrano in vicendevoli rapporti. Il tutto preso da un frenetico movimento, in un formicaio, Chicago, che non recita solamente come sfondo per le vicende create dall’inventore di The Shield, Shawn Ryan, ma che diviene il cuore pulsante dell’intera storia, un agglomerato di carni e spiriti differenti. Un brulicare di personaggi tra i quali emergono Teresa Colvin (Jennifer Beals), primo sovrintendente donna della Polizia nella storia della città, con ogni forza determinata a combattere la corruzione, a cominciare da Ronin Gibbons (Delroy Lindo), l’assessore che, tra l’altro, ha contribuito a sospingerla in alto. Accanto alla protagonista, Jarek Wysocki (Jason Clarke), poliziotto tutto d’un pezzo, tipico uomo da strada, un cognome polacco nella città più polacca d’America, ex collega di pattuglia della Colvin e contraltare di una figura femminile che, nella sua singolarità, nasconde comunque maggiori ambivalenze, presa come è tra la purezza dei suoi intenti e la ricerca di quell’equilibrio che è insito nel calcolo politico.
Per certi versi è una strana creatura, The Chicago Code: una storia raccontata più e più volte, tuttavia con talune innervature che suonano come lievi particolarità; un cop drama e un western metropolitano che sa suscitare dell’interesse; un lavoro realizzato dalla Fox e cancellato dopo i soli tredici episodi della prima stagione. Una ragnatela – seppure non particolarmente intricata – che avviluppa la narrazione, capace di articolarsi su diversi livelli e su diversi personaggi, ma senza perdere di vista il tema centrale: ossia il marcio della corruzione e del malaffare che intrappolano la città dell’Illinois. Un tema che ben si incarna nella figura dell’aldermanno Gibbons, uomo di colore fuggito da un’infanzia trascorsa tra i pericoli delle tante gang cresciute nel famoso complesso edilizio del Cabrini-Green, e ora salito fin sopra le vette della scala sociale, con l’impegno del self-made man peculiarmente americano. Una persona carismatica, un politico ambiguo che aiuta i suoi concittadini, dominando però la collettività non solo attraverso i suoi modi calmi ed eleganti, ma anche e soprattutto grazie a un sistema di favori e ai rapporti che intrattiene con la malavita irlandese.
The Chicago Code è principalmente il ritratto di una città e di una storia che si ripete ai nostri giorni, instillando così voci di un passato divenuto ormai classico all’interno della modernità, sia nella forma che nel contenuto. E una telegenica asprezza hard boiled – comunque per nulla eccessiva - si accompagna agli intrighi di palazzo, il tutto con la presenza da basso continuo di una voice-over che, fin dal pilota, viene qui utilizzata non come sottolineatura, ma col fine di esplicitare le ragioni che hanno spinto i personaggi coinvolti a diventare quello che sono. Tale espediente permette di lasciare campo libero all’irruzione di un’azione serrata che, assieme a un montaggio rapido e dinamico, velocizza la messa in scena.
È un racconto morale che tratta dell’amoralità, The Chicago Code, un lavoro alquanto armonioso e spesso ben costruito. Però quello che più di tutto gli manca è la voglia di spingersi oltre, di sporcarsi le mani, risultando, piuttosto, troppo preciso e geometrico nel recupero della lunga tradizione che lo precede, malgrado taluni tentativi di rinnovamento, un’intelligenza che si perde in tentativi che non riescono a diventare fino in fondo parte integrante del tutto. Fattori che, insieme, giustificano il pensiero secondo cui la visione si lega presto a un movimento che procede più che altro per forza di inerzia.


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