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Americana – The Kennedys

Pubblicato il 20 giugno 2011 da Marco Di Cesare


Americana – The Kennedys

Sinceramente, nella nostra estrema ignoranza riguardo le cose del mondo, siamo un po’ stupiti del polverone sollevatosi intorno a questa miniserie in otto puntate che racconta le gesta di una delle più grandi e importanti dinastie del Novecento americano. E siamo un po’ infastiditi da tale appiccicosa melassa, una pubblicità non necessaria che ha spostato l’attenzione lontano dagli esiti qualitativi dell’opera in questione, un lavoro inizialemente commissionato da History Channel in occasione del cinquantesimo anniversario dell’elezione a presidente di JFK, poi abbandonato dalla casa madre e rimasto a lungo figlio di nessuno, fino a quando ha trovato rifugio nel piccolo network ReelzChannel.
History Channel ha giustificato questa sua decisione affermando che la miniserie (la prima opera di fiction che sarebbe mai stata trasmessa dal canale), seppure di alto livello, non era storicamente attendibile e, quindi, non adatta al suo abituale brand. Stranamente, però, quello che non poteva andare bene per l’America, poteva al contrario essere adatto al resto del mondo, Italia compresa: tanto che la versione nostrana del canale ha deciso di trasmettere questa piccola pietra dello scandalo, in onda in questi giorni, laddove un pubblico più ampio potrà deliziarsi della sua visione in settembre, quando approderà su La7. Mentre da più parti, in particolare negli Stati Uniti, The Kennedys era stata accusata di fornire un’immagine negativa e mistificatoria della dinastia proveniente dal New England, imputando ciò alla fama da repubblicano di almeno uno dei suoi creatori, ossia Joel Surnow, già famoso per avere ideato la prima versione televisiva di Nikita e, soprattutto, il fondamentale 24. E tale diverso atteggiamento sulle due sponde dell’Atlantico (oltre che naturalmente nascere da una maggiore o minore vicinanza ai temi trattati a seconda del Paese in cui l’opera viene mandata in onda) potrebbe far pensare, per quanto riguarda l’America, a un intervento di personalità legate al mondo dei Kennedy, così come dichiarato da Joel Surnow.

Polemiche, queste, che divengono tuttavia uno stucchevole sottofondo quando ci si pone di fronte a The Kennedys con spirito critico attento alla sua Forma estetica, anche perché è facile comprendere come quello che interessava agli autori non fosse tanto narrare la Storia, quanto piuttosto una storia, lasciando la prima un po’ sullo sfondo, mentre in primo piano si dipanano le vicende private di una famiglia, vicende che si intrecciano con quelle di un’intera Nazione, mostrando i sogni, l’ipocrisia, la sete di potere, la caduta nell’abisso di entrambe, in modo tale che sia una storia a diventare la Storia, in un esaltante e intimistico tripudio che si conclude con la fine dell’utopia degli anni Sessanta.
E se per taluni quella portata in scena è stata solamente una soap opera, mentre per altri si è trattato di una soap di alto livello, tutti gli altri – noi compresi – possono reputare di avere assistito all’intreccio di tale genere di basso stampo con una tragedia dal vasto portato, lasciando comunicare tali diverse entità, esaltatesi l’un l’altra, manifestando la volontà degli autori di comunicare sia con la vecchia che con la nuova televisione. E, sotto questo punto di vista, ancor più The Kennedys si prodiga nel simboleggiare l’espressione di una forma che si distende nel Tempo, una direzione il cui scorrere, le cui implicazioni, evidentemente rivestono una fondamentale importanza per il già citato Surnow, così come per l’altro ideatore, Stephen Kronish, e per il regista Jon Cassar, non a caso tutti provenienti da 24. Così in The Kennedys la narrazione procede avanti e indietro nel tempo, brevi episodi annunciati da didascalie che riportano il luogo e l’anno dell’avvenimento di volta in volta mostrato. Una continua frammentazione, questa, in cui la Storia e le storie divengono pura, moderna, forma narrativa: flashback che rappresentano i ricordi dei personaggi in scena e, anche, le motivazioni dei loro atti nel presente, con una insistenza à la Lost. E le vicende vengono piegate di fronte all’espressione, nella loro interezza sviluppandosi sì cronologicamente, ma anche raggruppandosi a seconda delle tematiche affrontate di puntata in puntata, creando come un mosaico (à la FlashForward, verrebbe da dire).
Tutto diviene la messa in scena di momenti intimi, più importanti di una Storia risaputa e più e più volte da altri raccontata nel corso dei decenni. Soprattutto in The Kennedys non vi è alcun interesse a mostrare qualcosa che già non si sapesse o sospettasse: a cominciare dalla controversa figura del patriarca Joseph, dai suoi legami più o meno diretti con la mafia italoamericana alla sua volontà di scalare le vette del potere; dal suo lavoro come ambasciatore presso Londra dal ’38 al ’40, alla non ostilità verso Hitler e ai proclami contro l’interventismo, scelte che gli inimicheranno Roosevelt e che porranno fine alle sue mire su una candidatura per la Presidenza; dai grandi disegni che aveva in mente per i figli, per il futuro loro e della famiglia, fino all’operazione di lobotomia che fece regredire la figlia Rosemary allo stato vegetativo. Eppure lungo la miniserie questo personaggio (interpretato dal sempre grande Tom Wilkinson), sebbene nella sua manifesta negatività, non perde mai i connotati umani, sposando un’umana caducità a una tragica grandezza, divenendo parte di quell’equilibrio compositivo che scorre nelle vene di The Kennedys, il cui cast artistico diviene un grumo di vita nel quale brillano il John F. Kennedy di Greg Kinnear, la matriarca Rose interpretata da Diana Hardcastle con estrema compostezza, così come anche la Jacqueline Bouvier secondo Katie Holmes, fino a concludere con la vetta massima: ossia il Robert Kennedy portato in scena da Barry Pepper, protagonista di una performance da applausi.
Tutti insieme gli interpreti sanno rendersi partecipi di quell’atmosfera di umanità che pervade l’intero progetto, dove anche la Storia, il suo tragico riflesso, diviene un fatto privato. Basti pensare all’attentato di Dallas (puntata #7) nel quale, forse per la prima volta nella storia degli audiovisivi, non si vede il Presidente cadere colpito. Al contrario quel che viene mostrato sono le conseguenze di quest’atto: prima sulla folla; poi sul padre Joe (mentre, anziano e debilitato a causa di un grave ictus, stava tentando di alzarsi in piedi, per cadere disperato); infine sulla moglie Jackie, il cui corpo gentile, i cui vestiti, entrambi icone di bellezza e stile degli anni Sessanta, vengono lentamente lambiti dalla mdp, la quale pian piano scopre tracce di sangue e di dolore, fino al viso della donna, che accarezzerà la mano del marito ormai morto, nella sala operatoria, corpi inquadrati attraverso un vetro che diviene uno schermo nello schermo, in un raddoppio di quel filtro che è la rappresentazione della (o di una) realtà, esplicitando la forma e le problematiche di carattere estetico portate in scena in quest’opera.


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