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Americana - The Wire

Pubblicato il 5 gennaio 2010 da Lorenzo Vincenti


Americana - The Wire

“Qual è la cosa più pericolosa oggi in America? Un negro con la tessera della biblioteca!” . Brother Mouzone. Episodio “Burrasca in Arrivo”, Stagione 2.

Quando nel 2002, sul canale televisivo statunitense HBO, esordiva la serie televisiva The Wire, l’attuale Presidente degli Stati Uniti Barack Obama era un politico ancora molto lontano dalle responsabilità odierne; un uomo in voga, già ben inserito nell’establishment politico ma non al punto tale da suscitare interesse anche attorno ai suoi gusti televisivi più frivoli.
Nel 2002 perciò l’allora senatore Obama iniziava a vedere The Wire senza avere la consapevolezza che un giorno quella sua passione, così umana e così intima, avrebbe interessato parte dell’opinione pubblica mondiale e condizionato il giudizio degli appassionati televisivi.
A dispetto del mito dell’american way of life, Barack Obama elegge The Wire come miglior serie televisiva di sempre perché sintetizza la sua voglia di immergersi nella realtà del Paese, di viverne le sue piaghe e maneggiare con dimestichezza anche la materia più ostica. Il suo gradimento nei confronti di un prodotto come questo, oltre ad essere un evento curioso da registrare, sembra essere quindi un segnale della cesura netta tra il nuovo corso della politica americana, avviato dalla sua immagine rivoluzionaria, e lo spirito conservatore degli anni passati.

L’America tutta, con le elezioni del 2008, ha dimostrato di saper ormai affrontare, in maniera trasversale, un procedimento di riconsiderazione dei propri limiti, di riflessione concreta sulle smagliature di una società da sempre avvezza a mettere in mostra il proprio lato splendente. Non che in ambito culturale fosse mancata questa tendenza, tutt’altro. Ciò che colpisce però è che anche il mezzo televisivo d’oltreoceano, per antonomasia simbolo del sogno americano contemporaneo e ultimo baluardo di una cultura popolare patinata, si sia ormai dichiarato sempre più disponibile ad accogliere la materia cancerogena di una società e ad accendere i riflettori sulla parte più oscura del paese circostante.
The Wire, in tal senso, corre dietro questa nuova esigenza politica, distanziandosi da molti dei prodotti classici americani (anche quelli che, pur essendo affascinanti e all’apparenza egualmente crudi, rimangono comunque nei limiti della convenzionalità) e posizionandosi sulla scia di antecedenti maledetti come I Soprano (serie iniziata nel 1999), opera con cui The Wire condivide l’elemento della “strada”, intesa come sorgente criminale, e della “gerarchia”, simbolo della continuità che sovrintende le dinamiche di un gruppo.

The Wire però ha il merito di rilanciare pesantemente rispetto alla serie di David Chase, innanzi tutto perché la sua è una perlustrazione a 360° gradi, che tende a includere e ad allargare l’orizzonte degli eventi invece di focalizzare l’attenzione verso un elemento o un soggetto qualsiasi; poi perché, per la prima volta in una serie televisiva, si raggiunge un livello di realismo così alto da fare invidia anche a un notiziario giornalistico.
Il merito di questo attaccamento alla realtà è da attribuire ai due grandi burattinai della serie, coloro che l’hanno creata e prodotta traendo ispirazione da fatti concreti e dalle esperienze maturate nelle loro antiche attività professionali. David Simon, ex reporter del Baltimore Sun ed Ed Burns, ex detective e insegnante della stessa cittadina del Maryland (la seconda città d’America per tasso di criminalità), hanno più volte dichiarato infatti di avere messo a frutto concretamente l’immenso lavoro realizzato nei tanti anni di servizio trascorsi sul campo ad ascoltare le pulsazioni della vita di città e a tentare di ripulirla attraverso la forza di una penna o con i più modesti mezzi della giustizia classica.
La loro lenta discesa negli inferi di Baltimora, si consuma nell’arco di cinque stagioni intense ed appassionanti (dopo aver trasmesso le prime due stagioni, il canale Cult Tv proporrà dal 4 Giugno, l’inedita terza stagione) lungo le quali vicende di cronaca pura si alternano ad un racconto splendido, tutto giocato sull’alternanza tra toni realistici e sapori epici.

Ogni evento si realizza in contesti riconoscibili e definiti: la strada, i quartieri più malfamati della metropoli, gli uffici della politica, della giustizia e della polizia. E ad ogni contesto corrisponde un linguaggio, fatto di parole, segnali, gesti, rituali che marcano l’unione di un gruppo e ne delimitano i confini entro cui esso può essere riconosciuto. Da quello criminale che controlla lo spaccio di droga nelle Case Popolari di Baltimora ovest, al cui vertice si elevano personaggi complessi come Stringer Bell o Avon Barcksdale, sino ad arrivare al gruppo concorrente comandato da un leader altrettanto carismatico come Proposition Joe; passando per la corruzione e i traffici illeciti della zona portuale, le vicende parallele della politica cittadina, della stampa locale, della scuola e della polizia. A quest’ultima è riservato il compito di contrapposizione primaria e costante alla diffusione malavitosa e il suo potere ci viene sintetizzato nell’istituzione di una squadra speciale che in ogni stagione della serie si ricompone per tentare di colpire un preciso obiettivo criminale.
Tanti nuclei sociali perciò che prendono vita sulla scena di The Wire formando una sorta di coreografia disgraziata e contorta, il cui filo conduttore è la decadenza della società, sempre più putrida, sempre più compromessa da un destino segnato dall’assenza di speranza. Che siano poliziotti o delinquenti non ha importanza. Tutti sono uguali nella trincea e tutti sono come degli zombie postmoderni che si trascinano in una battaglia senza gloria, combattuta su più fronti e con diversi obiettivi.

La parte più emozionante della scrittura elaborata dall’equipe di autori è proprio l’aderenza clamorosa ai meccanismi che muovono il sottobosco di Baltimora. Per questo motivo, inizialmente, si fa un po’ di fatica a entrare nella serie e a seguirne attentamente le vicende, ma superata questa prima fase che accompagna ogni inizio di stagione ci si ritrova rinchiusi senza quasi accorgersene in un labirinto narrativo ammaliante, capace di sorprendere per la rappresentazione di procedimenti dell’indagine mai così fedeli alla realtà (dalle intercettazioni ai pedinamenti fino agli interrogatori), di stupire per il coraggio dimostrato nel mettere in luce le crepe della burocrazia incancrenita di Baltimora, o di commuovere per la sua rara capacità di penetrazione nei bassifondi della città; nei suoi luoghi più sconvenienti, nei suoi vicoli, nelle sue strade, nei suoi parchi abbandonati, in quel sostrato sociale restituito splendidamente da un complesso sistema visivo fatto di istantanee drammatiche, sguardi furtivi, movimenti sconnessi e ansimanti di una mdp perennemente posta sul medesimo livello dei suoi soggetti.

Elemento esplicativo, quest’ultimo, di un’istanza narrante che non giudica ma che, alla maniera dei reportage giornalistici, decide liberamente di raccontare con toni crudi, a volte anche crudeli ma sempre con intenti onesti e critici.
Come detto in precedenza, altro elemento fondamentale nella serie è il valore figurativo dato alla gerarchia. Essa può essere evocata nei dialoghi, negli incontri tra persone o può essere omessa, non per mancanze specifiche però, ma semplicemente perché il meccanismo è in grado di riconoscere automaticamente il proprio funzionamento. Tutte le sue componenti cioè, sottoscrivono consapevolmente la loro continua dipendenza nei confronti di qualcos’altro e di qualcun altro. Ogni personaggio della serie quindi ha un suo superiore, un punto di riferimento a cui deve rispondere per faccende professionali o per questioni morali. Per questo motivo tutti i protagonisti hanno come unico comun denominatore l’assenza di libertà, di autonomia e tutti, di conseguenza sono costretti a muoversi entro cerchi prestabiliti, confini visibili del proprio campo d’azione.

Ecco così che i ragazzi più piccoli e inesperti sono per la strada a spacciare la droga, i loro capi sono dietro l’angolo, i capi dei loro capi sono nelle macchine e i vertici della criminalità sono chiusi nelle loro abitazioni o nei loro ritrovi più abituali a contare i soldi e ad alimentare il circuito malavitoso; dall’altro lato i poliziotti impegnati in prima linea ottengono lo spazio angusto di un sotterraneo per condurre le indagini, vivono in prima linea tra la gente, arrivando a conoscere ogni più piccolo dettaglio della geopolitica criminale del luogo, mentre i detective più in vista vivono nei loro comodi uffici, pronti a impartire ordini da dietro una scrivania e a riceverne dai piani ancora più alti, dove si nascondono i vertici assoluti di chi - da un punto di vista spaziale e logistico - vive tremendamente lontano dalla putrida condizione della realtà vera.
Il tutto si risolve quindi in un insieme di strutture piramidali e di spazi, all’interno dei quali ascese e discese di uomini si consumano e si ripetono a tutto vantaggio di una storia che deve continuare. Una storia senza soluzione di continuità che, con una forte carica drammatica e un accenno di pessimismo endemico, si trascina quasi inerme verso un futuro oscuro ed invisibile.

The Wire è un’opera complessa, corposa, più vicina alle dimensioni e alla consistenza di un film che ad una vera e propria serie (nella tradizione di molte fiction targate HBO).
Pretenziosa e selettiva, essa reclama il diritto di essere scelta nell’oceano di proposte televisive e pretende di essere difesa ad oltranza per la sua sana onestà, valore tendenzialmente estraneo ai codici televisivi moderni e in nome del quale The Wire non compiace mai il suo pubblico ma vuole che esso compia il passo decisivo e cosciente verso una poetica televisiva in controtendenza.
Una poetica che la serie di Simon e Burns persegue apertamente e senza alcun tipo di scrupolo o ansia da prestazione in termini di audience. Una televisione, insomma, dalla quale si dovrebbe prendere sempre più esempio.


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