Anniversari - George Romero et la Politique des Undead
Il 4 febbraio del 2010 il Maestro George Andrew Romero ha compiuto settant’anni, molti dei quali spesi a colpire il Sistema, a morderlo, in un percorso cominciato nell’ormai lontano ’68 con uno dei film germinali per l’horror e per tutto il cinema indipendente americano, un esempio imitato ancora oggi – anzi, soprattutto oggi - ai tempi del digitale, del web 2.0 e del viral marketing, senza però che si riesca a ritrovare la freschezza, anche intellettuale, dell’esordio di un regista che è rimasto praticamente sempre lontano da Hollywood.
L’opera di Romero a vederla oggi, forse a causa proprio della sua lontananza dal mainstream, mostra un’invidiabile coerenza e una stratificazione, alquanto complessa, di significati e significanti che hanno utilizzato il genere horror - ma non solo - per portare avanti un discorso sulla contemporaneità, in primis quella americana, e sulla sua evidente decadenza, pensiero di un geniale cineasta, engagé nel modo un po’ obliquo con cui può esserlo chi ha affermato di non fare film politici, perlomeno non alla Michael Moore («Non voglio fare il predicatore, non mi sento come Michael Moore, esprimo solo la mia opinione, non ho la pretesa di influenzare nessuno. I miei quindi non sono film prettamente politici»). Un uomo che ha utilizzato i suoi figli prediletti, i morti viventi, come emblemi di una spietata analisi e critica sociale e politica, per una cinema che nella sua totalità rappresenta una filosofia.
Ma, ovviamente, non di soli zombie può vivere un Autore cinematografico, anche perché Romero non chiama mai in tale modo le sue creature (se non in un solo caso, all’interno della Director’s cut di Dawn of the Dead), poiché di zombi non si tratta propriamente, quanto semmai di morti viventi, di appestati, di folli, di malati, di non-morti. Di undead, quindi. E Romero non è solamente regista di horror, anche perché nel suo cinema si ritrovano molti degli stilemi del western, seppure ironicamente ribaltati: in questo modo viene rivisitata la personificazione massima dello spirito che ha nutrito l’America, la mitologia e la nascita di una Nazione che proprio in quei tardi anni Sessanta è giunta a un punto di rottura, a causa di un’opinione pubblica che ha compreso la portata dell’orrore che sta massacrando il Vietnam. Un’America che ha quindi perso la propria innocenza e che Romero sempre più sommergerà di una grottesca e apocalittica ironia, con esiti spesso assai elevati per un Auteur che preserverà una tematica costante lungo l’intera sua filmografia: la figura del non-morto, per l’appunto, dell’undead, ripreso all’interno di una continua ripetizione declinata in tutte le sue accezioni, dal morto vivente al revenant, dagli esseri sospesi tra due mondi (che vivono senza vivere, tra la vita e la morte, colpiti dalla follia, lungo il confine che divide l’umano dal bestiale, con alcuni che magari attendono una rinascita, posti ai margini della società, in preda alla solitudine, invisibili di fronte ai propri simili) o, astraendo ancora di più, interi mondi appartenenti a un passato che non vuole morire.
Tale insistenza sulla figura ricorrente del non-morto (e, a volte, del suo corrispettivo, ossia del non-vivo), oltre che per il suo utilizzo con scopi satirici, assume i contorni di un tragitto lungo una strada ben precisa, talmente battuta da divenire una politica ben precisa, sia autoriale che, per l’appunto, di impegno. È questa quella che chiameremo la ’Politique des Undead’.
Pennsylvania, not Transylvania: il disfacimento del Mito
Romero nasce a New York City da madre lituana e da padre di origine cubana, ma si trasferisce ancora molto giovane a Pittsburgh (città natale del maestro dello splatter, Herschell Gordon Lewis) per gli studi universitari. E nella città della Pennsylvania (in quegli anni uno Stato fondamentale per il settore dell’industria pesante americana) il futuro cineasta, dopo la laurea, comincerà a farsi le ossa attraverso spot e cortometraggi, per poi approdare, a 28 anni, sul grande schermo. E proprio in quelle zone ambienterà la gran parte delle sue opere.
È indubbiamente uno dei più grandi esordi nella storia del cinema, La notte dei morti viventi, un’epifania che ogni volta si rivela in quanto fondazione di una nuova mitologia e di un discorso altrettanto sensazionale, feroce disanima della condizione della società americana nel 1968.
Concluso nel dicembre dell’anno prima, il film mette in scena un’impossibile evasione connotata da una forte carica eversiva che verrà poi approfondita nei film successivi. Liberamente ispiratosi al celebre romanzo I vampiri (I am legend, 1954) di Richard Matheson che narra di un uomo rimasto solo sulla Terra, circondato da esseri resi mostruosi da un virus post-apocalittico - a livello concettuale esprimendo quindi la paura nei confronti dell’altro e l’incapacità di conoscersi tra diversi - Romero, assieme allo sceneggiatore John A. Russo, opera un ribaltamento totale, legandosi a tanto cinema classico e proponendone allo stesso tempo un superamento.
Soprattutto The Night of the Living Dead è una porta lasciata aperta sulla Morte, sul contagio, sulla paura, sulle debolezze e sul livore degli uomini, sull’impossibilità di qualsiasi rimozione, al pari di tanti horror sì, ma con una forza inaudita, che sembrava essersi persa dopo i Freaks di Tod Browning (nonostante i tagli e le ingerenze esterne che colpirono quest’ultimo). La notte (che è diventato un horror solo per ragioni commerciali, affinché potesse contare su di una visibilità superiore) è anche un western che mette in scena la paranoia americana, quella sindrome dell’accerchiamento e dall’assedio che da sempre attanaglia la cultura statunitense, le Ombre rosse degli indiani contro i cow-boy. Però il gruppo assediato, invece che unirsi per meglio fronteggiare il nemico comune, si sfalderà, si decomporrà velocemente e morirà più per mano di se stesso che di chi si trova al di fuori della cerchia. Anche se Ben (Duane Jones), protagonista di colore (forse il primo nella storia del cinema americano per ragioni che non fossero legate a motivazioni etniche all’interno del copione) sarà quello che più di tutti mostrerà razionalità, anche se comunque l’estrema violenza che irrora la pellicola coinvolgerà anche lui, tanto che non potrà considerarsi come un tipico eroe. La sua morte poi, casuale, sciocca perché giunta a sopravvivenza ormai raggiunta – e perciò ancora più tragica - non può comunque non far pensare almeno un po’ agli attentati in cui persero la vita Martin Luther King e Malcolm X, per un epilogo molto coraggioso per un regista esordiente.
Dell’horror gotico rimane solamente la casa sperduta e isolata (anche se qui acquisisce ovviamente i connotati di rifugio e non di dimora già infestata da chissà quale presenza maligna), così come il cimitero che si vede all’inizio e sul quale sventola una bandiera a stelle e strisce, la quale può rappresentare, oltre che una prima indicazione di luogo, soprattutto una esplicita esposizione dei morti caduti sotto il vessillo americano. Tutto ciò ovviamente rende l’insieme ancora più inquietante, perché l’orrore non avviene in un luogo lontano come la Transilvania, non proviene da una regione specifica come nel Nosferatu di Murnau, ma è parte del cuore stesso dell’America, è il suo passato, un grumo indistinto e diffuso che chissà da quanto tempo è padrone del tranquillo e prestabilito ordine borghese. Il disordine al contrario sconvolgerà il nucleo base della società, ossia la famiglia. Perché Barbara verrà portata via dal fratello Johnny, mentre i due amorevoli fidanzatini moriranno a causa dell’imperizia della ragazza, così come la ragazzina infestata, la piccola Karen, si nutrirà del cadavere del padre e ucciderà la propria madre con una cazzuola, in un delirio di grida trattate elettronicamente in modo sconvolgente (perché anche gli animali sanno usare oggetti in modo rudimentale, ma forse solo l’uomo-animale è così veloce a imparare come utilizzarli per uccidere, 2001: Odissea nello spazio docet), sconvolgente come l’Edipo re di Sofocle, reinterpretato dai Doors in The End appena un anno prima; infine Ben, ucciso dalla pallottola di un uomo bianco, come tanti altri neri prima e dopo di lui. Laddove invece i morti viventi, come la maggior parte degli altri animali, non uccidono i propri simili.
Per far giungere questi concetti Romero si rifà a Hitchcock, a Psyco e a Gli uccelli (film quest’ultimo per il quale il maestro inglese chiamò proprio Matheson, offerta ritirata al primo incontro a causa di divergenze artistiche), dovendo però sottolineare come la messa in scena claustrofobica che schiaccia e sovrasta i suoi personaggi richiama Orson Welles. E senza dimenticare come Romero apprezzi in modo particolare l’horror low-budget di Carnival of Souls (Herk Harvey, 1962) che tratta proprio di chi si trova sospeso tra il mondo dei vivi e quello dei morti, seppure con uno stile assai diverso. Inoltre, tornando a Gli uccelli, si può riconoscere una certa differenza nel fatto che Hitchcock non fornisca alcuna spiegazione sui motivi che hanno spinto quei teneri animaletti ad attaccare l’uomo, mentre in La notte se ne abbozza una: la causa potrebbe risiedere nelle radiazioni provenienti da una sonda mandata su Venere. Bisogna però aggiungere come non vi sia alcuna sicurezza su questi ipotesi e, aspetto ancora più importante, come tale questione generalmente perda di importanza man mano che il film avanza, divenendo la prima forma del blaterare dei mezzi di informazione, aspetto questo che accompagnerà l’intera opera di Romero.
Gente che non esiste più, mondi che non devono morire
Questa visione laica e razionale, questa reinterpretazione del mito produrrà due altri gioielli romeriani nel decennio dei Settanta, ossia La stagione della strega (1972, primo titolo Hungry Wives, anni dopo uscito in home video come Season of the Witch) e il meraviglioso Martin (1977). Entrambi i lungometraggi hanno prodotto uno slittamento verso l’analisi della condizione del singolo, uno studio antropologico sull’individuo, nella fattispecie la figura dell’emarginato.
Perché Joan Mitchell è una signora borghese di mezza età, ricca e abbandonata dal marito e dalla figlia nella grande casa di famiglia, alla periferia di Pittsburgh, rinchiusa in un’incomunicabilità emotiva che la spingerà tra le braccia della magia nera. Qui Romero si mantiene sul crinale dell’ambiguità, esponendo il deserto di sentimenti che circonda la donna, in un racconto che unisce oggettività e onirica soggettività. Soprattutto disegna un assai interessante personaggio femminile, dopo che ai tempi del suo debutto venne attaccato da talune femministe a causa della pochezza del peso delle donne in La notte dei morti viventi. Tra l’altro nel 1971 aveva diretto un copione non suo (nella sua carriera cinematografica accadrà solamente un’altra volta, con Creepshow), una commedia romantica con venature drammatiche e malinconiche, inedita in Italia, intitolata There’s Always Vanilla, protagonista la Judith Ridley de La notte. Si tratta di un film interessante, dove in particolare si fa notare un autore in vena di ulteriori ricerche linguistiche, grazie alla regia e al montaggio (che cura lui stesso, come accadrà in tutti i suoi film fino a Creepshow). In particolare si farà notare l’utilizzo per due volte di rumori forti e molesti che impediranno allo spettatore la comprensione di una comunicazione verbale ormai inutile: la prima volta tramite il rumore diegetico proveniente da un macchinario; la seconda attraverso un vero scandalo, un lungo ponte sonoro, nel quale l’inquadratura successiva viene spezzettata e inframezzata a quella che la precede, per mostrare la fine definitiva di un amore tra due creature che cercheranno di rinascere intraprendendo strade diverse. Si tratta di una sottrazione di senso forte quasi quanto quella messa in atto da Buñuel più o meno nello stesso periodo (Il fascino discreto della borghesia, 1972). In There’s Always Vanilla, poi, i rumori, il vociare di sottofondo, il mondo degli studi televisivi e degli spot pubblicitari diventano emblemi della vita moderna, un surplus di comunicazione che aumenterà, passando per Martin e Dawn of the Dead, giungendo fino ai giorni nostri con Le cronache dei morti viventi (2007), seppur in maniera stanca e didascalica.
Tornando finalmente a la La stagione della strega, possiamo affermare che Romero mostra ulteriormente la propria sensibilità di tocco, mischiando realismo, soggettività e onirismo, penetrando in profondità nell’animo di una donna che inizialmente vive il timore di una vecchiaia imminente. Mentre è necessario ricordare come nei sogni le persone appaiono vive, ma senza che lo siano veramente. In particolare risulta alquanto destabilizzante il lunghissimo incubo che apre il film, ben sette minuti di sperimentazione narrativa, dove è nuovamente l’utilizzo del sonoro a farsi sentire in maniera particolare.
Un’ambiguità ancora maggiore segnerà le gesta di Martin Matthias, un ragazzo che si crede un vampiro, un non-morto (anche se potrebbe esserlo veramente), malattia che scorre nel sangue della sua famiglia da generazioni. Però Martin non ha i canini più lunghi della norma, non ha problemi con i simboli cristiani né tanto meno con la luce del sole: sembrerebbe normale, tranne per il fatto che ama succhiare il sangue di donne con cui intrattiene rapporti necrofili. Perché Martin ha paura del sesso ordinario. Qui l’affascinante figura del vampiro viene decostruita come forse non mai nella storia del cinema: il vampirismo viene visto in quanto malattia sì - come in un ritorno alle origini del mito - però un malessere interiore. Eppure uno speaker della radio cui Martin confiderà la propria natura, avvertirà gli altri ascoltatori, ridendo e dicendo loro: «State attenti amici della notte, il Conte potrebbe essere un vostro vicino!». Il vampiro qui è una persona dalla mente deviata, una figura ancora più emarginata che deve lottare contro la superstizione e l’ignoranza dell’anziano cugino, che crede fermamente in Dio ed è sicuro che il ragazzo sia veramente un Nosferatu. Tutto ciò fa procedere di un’ulteriore tacca la poetica del pessimismo portata avanti da Romero. Il film, tra parentesi, in Italia è passato fino a pochi anni col titolo di Wampyr, una versione tagliata di oltre dieci minuti, rimontata e a cui sono state sovrapposte musiche dei Goblin, tra l’altro non composte appositamente per il film ma tratte dal loro Roller. Si mormora che autore di questo scempio sia stato Dario Argento, anche se ci risulta un po’ difficile credere che un artista di tale levatura (soprattutto a quei tempi) abbia potuto agire come un semplice macellaio, perpetrando un delitto ai danni di Romero e di generazioni di spettatori italiani...
«Incredibile, vero? È il calco del suo viso, eppure nessuno lo riconoscerebbe: gli manca la fiamma vitale». Altro personaggio romeriano che ha perso la propria identità è l’Henry Creedlow di Bruiser – La vendetta non ha volto (2000), un uomo che lavora per una rivista di moda, potenzialmente ricco ma in realtà sull’orlo del lastrico, sfruttato e preso in giro da (quasi) tutte le persone che lo circondano. Un giorno si risveglierà con indosso una maschera bianca, la sua nuova faccia, e un delirio vendicativo che simboleggerà la rivolta dell’uomo comune contro la diffusa ipocrisia borghese, la civiltà del denaro e dell’immagine, mettendo in atto una crudele vendetta come quella messa in atto da Il fantasma dell’Opera, grazie alla quale potrà affermare: «Sono io, sono tornato in vita!». Rispetto a quello che Romero ha realizzato dal ’93 in poi (escludendo Survival of the Dead che in Italia è stato visto solamente all’ultimo Festival di Venezia), secondo noi questo, tra le sue fatiche degli ultimi due decenni, è l’unica a poter suscitare un interesse che sia minimamente duraturo.
Se nella filmografia di questo cineasta vi sono persone che si pongono, o vengono poste dagli altri, ai margini della società e della collettività, vi sono anche interi universi culturali che vengono risuscitati. È questo il caso di Creepshow (1982), film diviso in cinque episodi scritti da Stephen King, grazie al quale vengono fatti rivivere i fumetti horror della EC Comics, la cui pubblicazione venne interrotta negli anni Cinquanta sulla spinta di pressioni censorie. Il risultato è una commistione di linguaggio cinematografico e di comic, per un horror a tratti divertente, a tratti spaventoso, macabro, ricco di humour nero e fuori dalle righe. Su tutti svetta un piccolo capolavoro, il quinto episodio Strisciano su di te, su di un crudele uomo d’affari ossessionato dall’igiene che finirà divorato dagli scarafaggi. Mentre nella cornice un bambino compie una vendetta contro il proprio padre. Nel 1987 Romero sceneggerà il sequel, sempre su soggetto di King, affidando la regia a Michael Gornik, suo direttore della fotografia dai tempi di Martin.
Ma non di soli incubi vive il cinema di George Romero, perché in lui vi è stato spazio anche per il sogno, quello de I cavalieri (1981, in Italia passato svariati anni fa solo su Tele+), un gruppo di motociclisti che d’estate si esibisce in tornei medievali, figure che si muovono nel presente abitando il passato, muovendosi tra due sponde come se fossero dei non-morti. Il loro re, Billy (interpretato da un giovane Ed Harris), afferma a pieni polmoni che «Devi lottare per i tuoi ideali e se muori loro sopravvivono. Il valore per cui viviamo è il gruppo, il gruppo è il nostro ideale: nessuno può calpestare questi ideali, nessuno!». Principalmente i pericoli che provengono dall’esterno sono legati alla mercificazione dell’arte e delle persone (impresari, denaro, corruzione, clamore suscitato dai mass-media, perfidia), un assedio portato avanti da poteri che possono infrangere la coesione di un’intera comunità. È fin troppo facile leggere tra le righe un’allegoria sulla volontà di preservare la propria identità d’artista, un discorso che potrebbe essere un abito perfetto per lo stesso Romero. Però bisogna prima sapere che i cavalieri, al fine di preservare la propria integrità, non sempre adottano le buone maniere: così una scazzottata in un fast food lo farà apparire come un saloon del vecchio West, anch’esso un altro ideale. Come anche i cavalieri che vanno in moto protetti dalle armature, con un elmo al posto del casco, appaiono però più come dei guerrieri in un mondo post-apocalittico e senza tempo.
Apocalisse domani: Folli, Morti viventi e Revenant
Dopo La notte dei morti viventi gli spazi si ampliano e con essi aumenta la claustrofobia dell’assedio, come nei film che andranno a completare il ciclo per il quale Romero è più conosciuto: Zombi – Dawn of the Dead (1978), Il giorno degli zombi (1985), La terra dei morti viventi (2005), Le cronache dei morti viventi (2007) e Survival of the Dead (2009).
Dawn of the Dead è però preceduto di alcuni anni dall’ottimo La città verrà distrutta all’alba (The Crazies, 1973, dal quale Breck Eisner ha tratto un remake che tra pochi giorni vedrà la luce in America...), una pellicola che narra di un’apocalisse che coinvolge una cittadina, i cui abitanti sono colpiti da un batterio che li conduce inesorabilmente alla morte oppure alla pazzia. Il contagio qui è reso in maniera ancora più esplicita, così come sono portate maggiormente allo scoperto le colpe della tecnologia e dell’uomo che ne fa uso (tutto è dipeso dall’incidente occorso a un aereo militare che trasportava un virus che doveva essere testato per scopi bellici, senza che però fosse ancora completato il vaccino). Il virus inoltre non può essere trasmesso agli animali, tranne che alle scimmie, ossia le nostre progenitrici, l’anello che ci lega al nostro passato animalesco. Anche qui, come in La notte, la paura proviene dall’alto e rappresenta un’imposizione, una prevaricazione del Sistema. E di nuovo torna l’assedio contro una popolazione che si divide tra folli, cadaveri e ribelli (civili che sparano sui militari e su chi è impazzito, un sacerdote che si dà fuoco come i monaci vietnamiti), mentre uno scienziato cerca di trovare l’antidoto, dibattendosi tra la stoltezza dei militari (guidati, però, dal colonnello Peckem, un afroamericano che appare come un personaggio positivo) e della burocrazia interna, tra i politici e le loro voci inutili che si propagano attraverso l’etere: immagini ’deboli’, queste, che si scontrano con quelle ’forti’ e dure architettate da Romero. Lo scienziato, che si chiama Watts, morirà cadendo dalle scale, mentre dei soldati lo hanno scambiato per un folle, solo perché afferma di avere trovato l’antidoto: un rivolo di sangue gli uscirà dalla testa, ultima sconfitta per la razionalità, mentre intorno gli appestati si muovono come dei non-morti.
Risale al 1978 quello che reputiamo come il massimo capolavoro del maestro, ossia Zombi - Dawn of the Dead (L’alba dei morti viventi), un film che amplia il discorso cominciato con La notte, amplificandolo e sfruttando spazi e tempi più dilatati, abbandonando spiegazioni pseudoscientifiche per abbandonarsi quasi a un senso di punizione divina, o comunque all’inconoscibile. Mentre uno scienziato in televisione afferma che bisogna affidarsi alla razionalità e non più al sentimento, se si vuole sopravvivere. Di questa pellicola esistono varie versioni: la prima venne accorciata di una ventina di minuti da Dario Argento, per il mercato dell’Europa continentale, su esplicita richiesta dei distributori, con l’intento di contenerne la durata entro le due ore; il regista italiano chiese poi ai Goblin di realizzare una colonna sonora per il film, sostituendo quella di repertorio scelta da Romero. L’idea piacque al regista americano, che decise di utilizzare i brani del gruppo italiano. La Director’s Cut dura 140’ e utilizza sia i brani dei Goblin che quelli scelti da Romero, in un equilibrio tra classico e moderno, tra orrore e grottesca ironia. La versione di Argento, invece, fedele alla sua propria visione autoriale, spinge più sull’acceleratore e su una tensione presente in misura maggiore, grazie anche all’intervento delle sole musiche dei Goblin, tagliando il sarcasmo e, con esso, un po’ delle annotazioni politiche e sociali di Romero. Sotto questo aspetto basta confrontare i diversi titoli di coda: in Romero i morti finalmente sono tornati nel loro nido, hanno espugnato il fortino e hanno conquistato quel posto in paradiso che da sempre bramavano, seppur inutile nello loro condizione, dando ’vita’ a una giostra grottesca, all’interno di un centro commerciale, il quale ha in sé tutto quello che un essere preda del capitalismo e del consumismo potrà mai desiderare, con in sottofondo una musichetta da luna park. Un paradiso che anche gli uomini che si sono nascosti lì dentro considerano come un paese dei balocchi, mentre solo il quarto elemento, una donna (Francine), si lamenta che il suo voto non conta e che loro tre sono totalmente presi da quel luogo, senza accorgersi che è una prigione. Argento invece taglia la visione umoristica dei morti che tornano a casa e la sua musica altrettanto eccentrica. Come ha detto lo stesso Romero «Io dico sempre che anche i miei zombi sono un po’ commedia. L’ho detto anche a Dario, ma lui finisce col togliere sempre l’elemento di humour!». Perché cosa c’è di più divertente di un’umanità che consuma così tanto da giungere fino a divorarsi da sola, circondata di cibo e di armi, ossia dei mezzi che le permettono di soddisfare i propri primari bisogni?
Il terzo capitolo della saga dei morti viventi è Il giorno degli zombi, ambientato in una base militare in un’isola dove si conducono esperimenti per educare i morti a una convivenza civile. Peccato, però, che anche l’animale più docile abbia bisogno, di tanto in tanto, di mangiare un po’ di carne... Gli attori e i personaggi da un film all’altro non sono mai i medesimi, fatto che acuisce la sensazione di coinvolgimento totale dell’umanità. Qui protagonista è un bel personaggio di donna, Sarah (Lori Cardille), forte e sensibile, femminile e maschile insieme, che farà parte di un gruppo di emarginati, assieme a un nero, un messicano e un mezzo ubriacone. La donna è una dottoressa che vorrebbe risalire alla causa del male, mentre il dottore che conduce gli esperimenti (da tutti amabilmente soprannominato ’Frankenstein’) vorrebbe educare e sottomettere il male. In questo bel film si assiste perciò a un interrogarsi sui confini dell’agire umano, spingendosi fino a una carneficina tra umani e di umani, come nei due precedenti, in un tripudio di trucchi per un Tom Savini ai massimi livelli. Diverso da Dawn of the Dead, perché lì c’era ormai un ordine stabile e accettato, interrotto da un intervento esterno, qui è necessario far entrare la malvagità (?) per permettere l’inizio di un nuovo, stabile, accettato e tollerabile ordine.
Molto meno interessanti sono gli altri due film della saga finora usciti in Italia: La terra dei morti viventi è un’opera spesso anonima, in cui si sente il bisogno di esplicitare subito come i morti cerchino di essere come noi, mentre invece erano già come noi, mentre ora magari stanno imparando a esserlo di nuovo. Chiude la quadrilogia, anche perché presenta un personaggio di colore, stavolta un morto che cammina, che rappresenta l’individuo che guida una massa indistinta che vive solo del suo istinto, portandoli a mangiucchiare gli ospiti di un centro residenziale che si rivelerà come una gabbia dorata senza vie di fuga, tirato su da un nuovo dittatore in una Detroit post-apocalissi. In Le cronache dei morti viventi, invece, l’Apocalissi ricomincia di nuovo, mentre si insiste nuovamente sull’identificazione uomo-morto («Aveva ragione. Si trattava di noi contro di loro. Solo che ’loro’ sono noi»), compresa una forte presa di posizione, esposta in modo alquanto didascalico, sul potenziamento dei mezzi di informazione ai nostri tempi.
Perché in fondo, ora come ora, il canto del cigno di Romero è stato I fatti nel caso di Mister Valdemar (episodio di Due occhi diabolici, 1990), per un regista capace di reinventarsi di nuovo, per la prima volta trattando una figura di zombie, ossia di un essere che è stato ipnotizzato per divenire schiavo di qualcuno, un uomo che morirà quando si troverà in stato di ipnosi e che sarà costretto a rimanere tra due mondi, almeno fino a quando qualcuno non lo libererà per sempre. Ma Mister Valdemar non è un revenant, non è, almeno ’coscientemente’, uno spirito vendicativo tornato dalla tomba per punire chi gli ha fatto del male. Gli unici revenant in Romero sono i personaggi di Nathan Grantham, Harry Wentworth e Becky Vickers di Creepshow. Piuttosto in questo episodio del 1990 assume una certa importanza l’esperienza dell’autoipnosi, in quanto autosuggestione che più di una volta era tornata nel cinema laico di Romero.
Nella vita l’importante è avere cervello
«Il cervello li muove, Sarah. È il loro motore. Non gli serve il sangue o gli organi interni!»
(Il giorno degli zombi)
«I cervelli della gente sono già morti, solo gli idioti sono rimasti vivi!»
(Dawn of the Dead)
Indubbiamente in Romero il centro di tutto è il cervello, la sua potenziale razionalità come la sua più probabile idiozia, la guaina che separa l’animalesco dall’umano (sempre che una distinzione tra queste categorie possa esservi veramente). Il cervello è l’organo che fa muovere corpi altrimenti inanimati, è il punto in cui colpire l’altro, attraverso le parole, i propri comportamenti o una pallottola.
Ed è nel cervello che si nasconde il gemello mai nato dello scrittore Thad Beaumont (Timothy Hutton) de La metà oscura (1993), un terzo occhio che volta il suo sguardo, assieme a un pezzo di narice e a due denti, quelli di George Stark, il doppio malefico risuscitato dalla volontà nascosta del primo, perché, come lo stesso Beaumont dice ai suoi studenti, «Noi siamo degli essere umani: ’plurale’. In ognuno di noi convivono due entità opposte, l’entità esteriore che è quella che mostriamo a tutti, inibita, timida, patologicamente bugiarda; e poi c’è l’entità interiore, quella vera: appassionata, disinibita e libidinosa». Mentre la presenza di miriadi di passerotti possono preannunciare il caos, come gli uccelli in Hitchcock, ma anche condurre, in questo caso, le anime degli uomini avanti e indietro, passando tra la terra dei vivi e quella dei morti e viceversa. E pure se si afferma che «Sai cosa succede alle persone che non controllano il pensiero? Cadono dal cielo...», è anche vero che la carne si fa comunque sentire, carne in putrefazione e strappata via dallo scheletro al momento giusto. Mentre la vicenda qui narrata era cominciata nel 1968, quando tutto ebbe inizio.
Monkey Shines - Esperimento nel terrore (1988) è spesso un grande film, malgrado certe prolissità che difficilmente prima di allora erano appartenute a Romero, e nonostante un finale imposto dalla produzione in luogo di quello, pessimistico, immaginato dal regista. Qui più che in altri suoi film si incontrano il vigore di un fisico atletico con la costrizione all’immobilità pressoché totale, esclusa la testa, dopo un gravissimo incidente. Insieme all’uomo così ridotto una scimmia che, già alquanto intelligente, lo diventerà ancora di più grazie a un esperimento. L’effetto collaterale sarà un aumento di aggressività e di violenza, nell’animale come nell’umano, indissolubilmente legati quando si trovano l’uno vicino all’altro, per un altro film che parla di mondi lontani che comunicano tra di loro come se fossero attraversati da un undead. Mentre è forte il discorso sull’educazione, sulla coercizione, sulle gabbie e sui guinzagli che qui risultano ben visibili, come già in Il giorno degli zombi e in certi incubi, forse mai così veri, della Joan de La stagione della strega, in un universo, quello di George Romero, dove nessuno è più malvagio dell’Uomo.