Anniversari - Ripensando Visconti nel centenario

Ricorre oggi, 2 novembre 2006, il centenario della nascita di uno dei più importanti registi della storia del cinema non solo italiano: Luchino Visconti. E’ una curiosa coincidenza di date che sia proprio il giorno dei morti a dare i natali a quell’autore che, nella storia della nostra cultura, ha saputo, meglio di molti altri, rendere, in immagini, il senso di disfacimento della società occidentale tutta. Circostanza resa ancora più curiosa dal fatto che proprio quest’anno si ricorda anche il trentennale della sua morte avvenuta poco dopo che si erano ultimate le riprese del suo ultimo e meno significativo film: L’innocente.
Di Visconti si è scritto ormai tutto e il contrario di tutto. Acclamato da certa critica per i suoi esordi neorealisti e rifiutato per le derive decadenti degli ultimi film; esaltato come principale esponente dell’intelighenzia comunista italiana del dopoguerra e guardato con sospetto per l’ostentazione sempre manifesta delle sue origini nobili, Visconti è ancora oggi una sfinge poco decifrabile nel suo presentarsi pervicacemente come una sorta di utopica sintesi di opposti.
E sintesi di opposti sono anche i suoi film che non sono mai quello che sembrano essere, tanto che basta appena qualche approfondimento per rendersi conto di come, in piccoli dettagli, si annidono spesso delle vere e proprie sorprese capaci di contraddire anche quelle che sembravano verità inoppugnabili. E, forse, è proprio l’analisi delle componenti musicali (in quello che è stato il più melodrammatico dei nostri registi) può aiutarci a comprendere meglio il senso ultimo della sua opera tutta. Regista musicofilo, Visconti è stato capace di utilizzare la grande musica della tradizione occidentale in modi spesso inaspettati. Bruckner, Mahler, Franck sono tutti passati al vaglio del suo gusto enciclopedico.
Ma se moltissime pagine sono state scritte, ad esempio, per chiosare il rapporto tra Visconti e Mahler (per l’uso dell’adagetto della V sinfonia) o quello ancor più interessante intercorrente tra il regista e Verdi poco o nulla è stato scritto per analizzare gli esiti dell’incontro tra la musica di Cajkowskij e le immagini di Visconti. Ed è proprio su questa inedita realtà che ci preme oggi porre l’attenzione anche perchè ci pare che, in essa, si annidi il senso ultimo del passaggio epocale dalla fase neorealista a quella più spiccatamente decadente. Cominciamo con il dire che le somiglianze tra i due autori sono molteplici e non ci riferiamo soltanto al mero dato anagrafico della comune omosessualità.
Luogo di questo incontro felice è stato il set di Rocco e i suoi fratelli, film capolavoro del 1960.
Si tratta di una scena apparentemente marginale nell’economia narrativa del lavoro, ma, in realtà, densa di riferimenti culturali e di significati. Parliamo della scena del litigio tra Ciro e Simone circa la presenza di Nadia nella casa materna. Durante tutto il dialogo è udibile, trasmessa da una qualche radio non chiaramente visibile sulla scena, parte della Quarta Sinfonia di Ciajkovskij. Ci troviamo nel primo movimento del brano tra l’elaborazione del primo gruppo tematico e la transizione al secondo (dal tono più mesto) attraverso un ampio ponte modulante. E’ certamente questo uno dei punti più intensamente drammatici di tutta la sinfonia e la sua drammaticità è in diretto contrasto con le immagini e i dialoghi pur intensi, ma abbondantemente statici. Né l’immagine né la situazione, infatti, sono paragonabili al parossismo sinfonico che domina in questo punto della partitura. Mentre la musica, allora, procede, attraverso una serie di progressioni, verso il secondo gruppo tematico che noi non sentiremo dato il taglio di montaggio che ci introduce in un’altra situazione, dall’altro lato, del tutto indifferenti proseguono i dialoghi e le immagini del colloquio di Ciro con il fratello. Parrebbe un caso tipico di musica anempatica, dato che si ha la rappresentazioni parallela di due drammi (quello musicale e quello narrativo) apparentemente inconciliabili tra loro, ma in realtà, a ben guardare, la situazione è affatto diversa. Basta tenere conto, infatti, di alcuni aspetti della sinfonia di Ciajkovskij citata, per rendersi conto che le due realtà non sono così inconciliabili come erano apparse a prima vista. Sarà il caso, allora, di parlare brevemente della sinfonia e delle circostanze inerenti la sua stessa composizione.
La Sinfonia in fa minore fu composta da Ciajkovskij intorno al 1877 per essere eseguita il 22 febbraio del 1878. Fu il risultato di un travaglio compositivo durato oltre un anno e dovuto probabilmente anche alla crisi del matrimonio del compositore con Antonina Miljukova. La sinfonia si apre immediatamente all’insegna della drammaticità con l’ormai famoso tema del Fato affidato agli ottoni. Questo tema ritornerà poi in tutti i momenti salienti della composizione a partire dall’inizio dello Sviluppo del primo movimento per poi ritornare modificato nei movimenti successivi fino a chiudere l’ultimo movimento poco prima della Codetta conclusiva. La sinfonia ha, allora, una struttura ciclica voluta dall’autore con fortissima determinazione. La quarta sinfonia ha poi, alla sua base, un preciso supporto letterario che la rende quasi un poema sinfonico; ciascun movimento, infatti, reca con sé, in partitura, un titolo che chiarisce le intenzioni dell’autore. L’ultimo movimento reca la scritta: “Se non trovi motivo di gioia in te stesso, guarda agli altri. Vai tra la gente... Non dire che tutto è triste nel mondo. Esiste una gioia semplice, ma profonda... La vita merita ancora di essere vissuta.”
L’idea di guardare agli altri per ritrovare la pace e la serenità è profondamente sentita dall’autore al punto che, proprio nell’ultimo movimento il tema del fato non riesce a contaminare con la sua tragicità le allegre danze contadine che costituiscono il materiale tematico utilizzato. Esso, anzi, compare violentemente, ma poi si spegne e, dopo una brevissima pausa viene sostituito dalla danze che portano la sinfonia al suo trionfale finale. Un procedimento questo tipico di Mahler (compositore anch’egli caro a Visconti) del descrivere musicalmente una subitanea illuminazione della propria tragica condizione per poi tornare alla festosità come nulla fosse successo. Questa idea verrà, però, poi lentamente accantonata nelle due sinfonie successive in cui, invece, il destino pare sconfitto (ma è solo un’illusione) nella Quinta, e trionfa, invece, assolutamente nel tremendo finale della Sesta. La continuità esistente tra queste tre sinfonie è talmente grande che non si può fare a meno di considerarle come un ciclo compatto, al punto che non ne si può citare una senza implicitamente citare anche le altre.
Dal momento in cui Visconti cita questo brano sinfonico egli riattualizza e fa proprie tutte le lacerazioni che sono proprie della musica. L’esito fatale del brano di Ciajkovskij è allora più vicino di quanto non si creda all’esito fatale della storia narrata.
Da una parte, allora, lo strano legame che unisce Nadia e Simone (contro la volontà della stessa donna) richiama alla mente l’altrettanto tragico legame che univa il compositore russo con la moglie (nonostante l’omosessualità di Cajkowskij), dall’altra l’esito fatale del ciclo sinfonico richiama l’esito fatale, di lì a poco, della vicenda di Nadia. Ma quello che maggiormente ci colpisce è una coincidenza curiosa tra le parole con cui Ciajkovskij suggella il quarto movimento e l’orientamento dell’opera di Visconti.
“Guarda agli altri” dice il compositore “per ritrovare la pace e la serenità” e questo aveva fatto Visconti con i suoi film neorealisti, ma come per il russo così per l’italiano questo sguardo verso l’altro da sé non aveva fatto che mostrare come la propria condizione fosse, alla fin fine, universale. In tutti i film in cui Visconti guarda agli altri, infatti, sotto ai suoi occhi non vede che muoversi le passioni e i dolori di sempre. Di qui il rinchiudersi dello sguardo di Visconti in un’ottica pessimista paragonabile a quella dell’autore russo. Che Visconti, allora, fosse consapevole, nello scegliere la musica del grande compositore russo, di una comunanza di sguardi profonda?
Ed eccoci di nuovo di fronte ad un brano musicale diegetico che assolve, però, funzioni tipiche di commento di un brano extradiegetico utilizzato, per di più in modo quasi anempatico.
Ci colpisce, a questo punto, un’altra coincidenza. Ciajkovskij compose la sua quarta sinfonia durante un soggiorno in campagna pagatogli dalla sua ricca mecenate la von Meck. Lui, abitante di San Pietroburgo, abbandona, allora la città, per recarsi in provincia e cercare lì riposo e quiete. L’esatto opposto fanno, invece, i Parondi, che abbandonano la Lucania per recarsi a Milano, dalla provincia, alla grande città, alla ricerca di una vita migliore. Visconti ci pare, allora dire con questo accostamento inusuale tra musica e storia come entrambe le speranze fossero, in realtà, illusorie.
Ed ecco, quindi, che anche all’interno di un film tenacemente neorealista si nascondono i germi di un pensiero diverso. Un’ennesima sintesi di opposti, un’ennesima espressione di angoscia nei confronti dell’insondabile incomprensibile complessità del reale.
[Novembre 2006]
