BAND OF BROTHERS E IL CINEMA DI GUERRA (E DI PLOTONI)

“Perché chi spargerà con me il suo sangue oggi sarà mio fratello” (*)
Il reggimento di fratelli dei tenenti Winters, Lewis Nixon, ’Buck’ Compton, Ronald Speirs, Harry Welsh, Dyke, del capitano Sobel, dei sergenti Carwood Lipton, Floyd ’Tab’ Talbert, John Martin, dei soldati Bill Guarnere, Donald Malarkey, Albert Blythe, David Webster, e del caporale medico Eugene Roe - tanti e addirittura anche altri sono i personaggi della serie, tutti protagonisti allo stesso livello, secondo una coralità derivata principalmente dal Malick polifonico de La sottile linea rossa - è la Compagnia Easy del Secondo Battaglione, 506o Reggimento di fanteria paracadutista, 101a Divisione Aviotrasportata.
Le loro mirabolanti avventure nel corso del Secondo Conflitto Mondiale - dalla loro assegnazione sul fronte europeo nel 1942, alla fine della guerra con l’attacco al ’Nido delle Aquile’ di Hitler nel 1945, a cui la compagnia partecipa attivamente - sono state narrate dallo storico Stephen Ambrose, anche consulente della serie, nel suo libro ’Band of Brothers: E Company, 506th Regiment, 101st Airborne from Normandy to Hitler’s Eagle’s Nest’.
In quanto plotone, la Compagnia E non si dimentica nemmeno per un attimo di nessuno dei platoons che hanno affollato l’immaginario cinematografico prima di loro (o dopo, o contemporaneamente, dal punto di vista cronologico), a partire soprattutto dai virili reggimenti di soldati in guerra nei film di Samuel Fuller, in primis Il grande uno rosso e il formidabile L’urlo della battaglia, ma anche i più ‘anziani’ Corea in fiamme e il sublime I figli della gloria.
Non si dimenticano della messinscena dei sentimenti comune a tutti i battaglioni di soldati del cinema classico, nei film di guerra di Guy Hamilton, di Lewis Milestone, del grande Raoul Walsh, nel formidabile La croce di ferro di Sam Peckinpah (sicuramente imbattibile, due anni prima di Apocalypse Now Peckinpah fa esplodere il cinema bellico ‘classico’ – se ne ricorderà John Woo in un film che è molto in debito proprio con Cross of Iron, il meraviglioso e totalmente incompreso Windtalkers): sono ’bianchigiallineri’, la sporcizia e l’insostenibile crudeltà della trincea li unisce, la situazione estrema li rende ’come un sol uomo’ – fratelli, appunto, compatti sotto la guida dell’immancabile ufficiale ultracarismatico.
Nelle dieci puntate che compongono la miniserie, i diversi registi che si avvicendano dietro la mdp invece non si dimenticano nemmeno per un attimo (anche loro) di chi c’è dietro alla Band of Brothers: Steven Spielberg e Tom Hanks, il primo produttore e ‘ispiratore stilistico’ fondamentale della serie con il suo Salvate il soldato Ryan, il secondo che, oltre al ruolo di producer, ritroviamo anche in veste di regista di una puntata, sceneggiatore, e padre dell’attore che interpreta il tenente Jones, Colin Hanks.
E qui ci viene facile facile: una qualsiasi puntata di Band of Brothers è di gran lunga superiore al film Salvate il soldato Ryan, da cui riprende l’ “esagitazione” della regia nelle scene di guerra – mdp mossissima a spalla con l’obiettivo sporco di terra e sangue, personaggi in movimento che attraversano l’inquadratura repentinamente, violenza intollerabile esibita con documentaria freddezza, azione frammentata e incomprensibile allo spettatore – ma lascia a casa per fortuna il più delle volte la “zuccherosità” del sentimentalismo spielberghiano: come dire che Band of Brothers attua in tv il passaggio da Saving Private Ryan a Tigerland di Joel Schumacher – facendo anche a meno dell’importanza del sonoro, a meno che uno non abbia un impianto tv col sistema dolby digital 5.1.
E dire che il sonoro pareva e pare una componente fondamentale per il successo delle messinscene belliche di casa Dreamworks, prova ne sia la nomination per il montaggio sonoro a quel Flags of our fathers di Eastwood/Haggis/Spielberg - poi vinto dal gemello Letters from Iwo Jima - che proprio da Band of Brothers sembra riprendere la conformazione a flashback incrociati a partire dai ricordi dei reduci di guerra – Band of Brothers mostra infatti all’inizio di ogni puntata frammenti di interviste a soldati della Compagnia Easy sopravvissuti alla trincea tratte dal documentario We stand alone together di Mark Cowen – riallacciandosi così in qualche modo a un’altra creatura di Spielberg, il documentario di James Moll Gli ultimi giorni.
Trasmessa negli Stati Uniti dal settembre al novembre 2001 dalla rete HBO, approdata in Italia su Rete4 dal gennaio al febbraio 2003, poi su DuelTV nel 2004, infine replicata sempre da Rete4 l’anno scorso, Band of Brothers si rivela sicuramente come uno dei picchi delle produzioni ‘belliche’ della contemporaneità (seppure il più bel film di guerra degli ultimi anni rimanga lo splendido Black Hawk Down di Ridley Scott, che sull’etica spielberghiana ha già capito che a vincere è la nichilistica noncuranza del reportage televisivo).
(*) = Shakespeare, Enrico V, Atto IV, Scena III (citato alla fine dell’ultima puntata della serie): From this day to the ending of the world/ but we in it shall be remember’d/ we few, we happy few, we band of brothers/ for he today that sheds his blood with me/ shall be my brother.
