Britannica - Whitechapel

Eleganza e memoria. Sono queste le due parole d’ordine che ci aiutano a capire concretamente la portata dell’operazione televisiva racchiusa in Whitechapel, la miniserie in tre puntate prodotta dall’inglese Itv e trasmessa attualmente in Italia dal canale satellitare FoxCrime. L’eleganza è innanzi tutto quella dello stile di composizione della serie, tipicamente british nell’andatura dal ritmo compassato e nell’approccio visivo raffinato (nonostante gli argomenti delicati e le immagini talvolta sanguinolente) mentre la memoria è quella solita del prodotto inglese medio, particolarmente abile nel saper selezionare porzioni di storia o leggende nazionali (e in aggiunta popolari) con l’intento di ricavarne il più delle volte confezioni dal sapore nostalgico o contemplativo. Esemplare in tal senso è il caso di un autentico capolavoro del recente passato televisivo come Life on Mars che attraverso l’espediente del salto temporale vissuto dal protagonista si concede con malinconica partecipazione al ricordo degli eventi, delle abitudini e dello stile di vita dei mitici anni ’70. Sulla scia prodotta da quel fortunato esperimento e su quella prodotta da esempi minori ma comunque significativi si muove così il caso del nostro Whitechapel, anch’esso esemplare in tal senso in quanto in grado di rilanciare una rivisitazione in chiave moderna dell’affascinante storia criminale di Jack The Ripper, lo psicopatico “squartatore” che sul finire del 1800 si fece conoscere dagli inglesi per una serie di efferati crimini commessi nei confronti delle prostitute operanti nell’East End di Londra (proprio nel quartiere che presta il nome alla miniserie).
L’operazione Whitechapel trasporta così al giorno d’oggi i contorni di quella ormai consumata vicenda, tentando da un lato di rinfrescare attraverso la novità della presunta emulazione contemporanea un soggetto sin qui corroso da troppi adattamenti televisivi e cinematografici (la storia è semplice e si gioca su due fronti: i crimini di un serial killer che agisce sulle orme di Jack lo squartatore e le conseguenti azioni di indagine svolte da una squadra investigativa della zona est di Londra) e, dall’altro, di mantenere in vita, tra le pieghe del racconto, quell’atmosfera propria della vicenda originaria in cui tensioni sociali forti cominciavano a diffondersi con estrema rapidità all’interno della mutevole civiltà tardo-vittoriana (l’impatto della seconda rivoluzione industriale era a quel tempo ancora evidente e forte sulla popolazione inglese).
Diversamente da quanto si possa pensare questi due differenti piani su cui Whitechapel si sviluppa (riadattamento e riscoperta insieme) non sono in realtà distanti e separati. Se infatti l’epoca di riferimento post-rivoluzionaria, così come raccontato e teorizzato da letterati quali Dickens e altri, prevedeva come automatica risposta al tumulto la nascita e la crescita di fenomeni degradanti quali il lavoro minorile, lo sfruttamento e la prostituzione, allo stesso modo un periodo come il nostro, moderno e dinamico, inserito a detta di molti in una rivoluzione industriale di terza generazione, è in grado di produrre manifestazioni di disagio e degenerazione sociale eguali se non maggiori di quelle appena menzionate (come d’altronde avviene in ogni epoca successiva agli stravolgimenti esistenziali). È proprio su questo parallelismo, su questa coniugazione causale tra sviluppo economico sociale e degrado ambientale vissuto nella Londra reale di Jack lo squartatore e in quella bidimensionale di Whitechapel e del suo nuovo killer televisivo, che l’opera scritta a quattro mani da Ben Court e Caroline Ip acquista improvvisamente dignità. Se l’Ottocento poteva così produrre il suo criminale seriale, uno squartatore sui generis in grado di censurare con i suoi gesti estremi la decadenza della società a lui contemporanea, ecco che anche la società odierna di Whitechapel può automaticamente produrre il suo. Un serial-killer non più caratterizzato però da un tragico e per certi versi romantico modus operandi o da un castrante quanto distruttivo bigottismo propulsivo, ma da un vuoto, da un nichilismo di fondo, da un’alienazione evidente che lo portano a rispondere alle nevrosi di una società ipertecnologizzata con l’unica arma che il postmodernismo gli concede: l’emulazione.
Il calco, la copia, la sovrimpressione dei gesti del più grande assassino della storia inglese divengono perciò il “nuovo” risultato prodotto dalla società contemporanea, l’unica risposta concreta che il ventunesimo secolo riesce a dare al dilagante immobilismo di cui anche il criminale è vittima. È qui che subentra la memoria come elemento di salvifica presenza, non solo da un punto di vista diegetico (il killer che ricopia l’altro killer), ma anche da un punto di vista prettamente creativo. Come fattore cioè indispensabile ai fini di un lavoro concettualmente interessante e soprattutto intrinsecamente classico. Un lavoro che proprio per questo motivo si mostra in maniera apparentemente semplice e lineare e che decide di confondersi nell’assenza di innovazione solo per esaltare la restituzione perfetta e coerente di tre fattori fondamentali: l’alienazione dell’essere umano odierno (visibile nelle gesta del criminale, ma anche nella ridicola pratica del tour turistico sui luoghi degli omicidi originali organizzata dall’esperto ripperologo Edward Buchan), la rivisitazione di un’epoca passata e l’alimentazione di una narrazione sobria e di una messa in scena composta.
Dietro i contorni ben definiti del prodotto di genere, connotato dai rituali elementi di riconoscibilità per di più arricchiti da incursioni nel noir più puro, si cela quindi un prodotto audiovisivo profondamente nostalgico, che guarda cioè ad un passato lontano attraverso la ricostruzione di un clima antico, di vecchie atmosfere notturne e fumose dentro le quali il nuovo “ripper” è libero di muoversi e agire sulle orme fedeli del ben più noto omicida. Seppur a favore di una pratica finzionale, il popolare quartiere di Whitechapel torna così ad essere il luogo di crimini efferati, di spargimenti di sangue, il luogo in cui l’insofferenza sociale può maturare ed esplodere nuovamente, non prima però di una mimesi, l’ennesima, attraverso la quale l’immagine di una Londra squarciata da una cultura pop dilagante e da un multiculturalismo pulsante torna per sole tre puntate a respirare le atmosfere e i misteri dell’epoca vittoriana, oscura quanto intrigante. Tutto questo si deve principalmente alla splendida fotografia di Balazs Bolygo, abile nel saper tinteggiare le immagini con colori e tonalità angoscianti e nel saper incorniciare il tutto all’interno di un impianto visivo classico ma mai banale. Ma ai fini di tale risultato non è da meno anche un altro elemento, apparentemente insolito. Un elemento che in teoria non dovrebbe trovare nessun appiglio con la prassi revivalistica ma che in pratica suggestiona tanto quanto la fotografia stessa. Stiamo parlando della presenza di personaggi atipici (per un thriller a tinte forti come questo) e, conseguentemente, della recitazione degli attori stessi, i quali sembrano talvolta riuscire a dimenticarsi totalmente della contemporaneità della storia (Steve Pemberton, alias Edward Buchan, sembra uscire direttamente da un romanzo sociale del periodo) per calarsi d’improvviso nei panni di soggetti d’altri tempi, rispondenti a tipologie di uomini fortemente connotati, dal carattere spigoloso e dall’impostazione mentale molto definita. In sostanza uomini lontani da una visione moderna della realtà che si celano dietro le loro rispettive figure professionali (investigatori, poliziotti e studiosi di Jack lo squartatore) senza peraltro riuscire a nascondere la loro evidente carica ottocentesca.
Il risultato agli occhi dello spettatore è evidentemente affascinante per via di questo contrasto continuo tra un tempo remoto e un tempo che dovrà accadere, tra ciò che è avvenuto più di cento anni prima e ciò che tornerà a verificarsi contro ogni opposizione dell’essere umano. Una contrapposizione continua che attira lo spettatore e che sulla scia della teoria dello sdoppiamento stevensoniano (la dove non può arrivare un dottor Jekyll ci sarà sempre un mister Hyde a pensarci) lo tiene incollato di fronte ad un prodotto evidentemente “nuovo” ma dal sapore vintage. Perché quella di Whitechapel è certo una storia forte ma che indubbiamente non disturba. Esso è un prodotto sicuramente truculento ma dall’impostazione elegante, una serie con i ritmi del lungometraggio ed una piece teatrale scesa per le strade, uno spettacolo in maschera in cui ognuno recita la parte del proprio corrispettivo passato, un gioco al rimando malinconico e un trattato sull’eleganza dell’english mood. Whitechapel sa essere tutto ed il contrario di tutto. Questo e molto altro. Sia di cose che abbiamo già visto in questa prima serie sia di cose che sicuramente vedremo nella prossima.
