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CONFERENZA STAMPA LE ROSE DEL DESERTO, ROMA, HOTEL BERNINI BRISTOL, 22 NOVEMBRE 2006

Pubblicato il 30 novembre 2006 da Sara Ceracchi


CONFERENZA STAMPA LE ROSE DEL DESERTO, ROMA, HOTEL BERNINI BRISTOL, 22 NOVEMBRE 2006

Lo stile asciutto e antiretorico che caratterizza l’opera e il carattere del "Maestro" Mario Monicelli (e guai a chiamarlo "Maestro"!) si è confermato tale anche durante la conferenza stampa tenutasi all’Hotel Bernini Bristol di Roma il 22 novembre dopo la proiezione in anteprima dell’ultima sua fatica, Le Rose del Deserto.
Risposte puntuali e a volte irriverenti hanno sottolineato la personalità di un grande artigiano del nostro cinema, che forse resiste al tempo proprio perché ha idee chiare e semplici sulle realtà che descrive, e su quello che è il suo mestiere ormai da settantadue anni. Non è mancata infatti, da parte sua, una sottile ironia nel rispondere alle numerose domande non troppo brillanti o poco attinenti al film, ed anche per questo la discussione ha spesso assunto toni gustosi e informali, protraendosi anche oltre il tempo previsto.
Alla conferenza partecipavano anche gli interpreti principali Michele Placido, Giorgio Pasotti, Moran Atias, Alessandro Haber, e buona parte del resto del cast.

Come mai ha scelto di raccontare proprio quel periodo storico?

Monicelli: Perché mi ero accorto che quest’ultima guerra, persa come tutte le altre, in realtà non era stata raccontata. Forse un po’ di più lo è stato il periodo della resistenza, ma in fondo neanche tanto.
Tra le altre ragioni c’è che avevo letto e mi ero appassionato al romanzo di Tobino, che era anche un mio compaesano, quasi coetaneo: lui era stato in Libia come Maggiore in un reparto di Sanità perché era uno psichiatra. Anch’io ero stato in Libia nel ’36, a fare da assistente per un film di guerra; e io stesso avevo combattuto, non in Africa del Nord - che del resto conoscevo - ma in Jugoslavia.
Tutte queste cose mi hanno spinto a raccontare la guerra per come l’avevo vista e vissuta.
Tutto qui, d’altra parte le ragioni per cui si fanno film non sono più di queste..

Lei ha fatto un film sulla guerra, in cui si parla però anche di tante altre cose: un aspetto che non sfugge è l’attenzione al mondo femminile in anni in cui il femminismo non era così radicato nelle coscienze; ci sono anche molte battute dei soldati a proposito delle donne. Si può dire qualcosa sui lati periferici del suo film? (la domanda è posta da una signora, n.d.r.).

Monicelli: Lei mi dice che nel film si parla molto delle donne, ma sa, come parlano delle donne i soldati negli anni ’40-’43, non è molto diverso da come se ne parla adesso, non ci sperate. Il maschilismo degli anni del fascismo si è mantenuto fino ad oggi.
A me è piaciuto ricordare quanto ho vissuto di persona, compresa la coscienza della sopraffazione maschilista che in Italia non è cambiata: è un elemento che fa parte del racconto, ma non era nelle intenzioni a monte del film. Soltanto è naturale che mettendo insieme dei ragazzi dai venti a i trent’anni d’età, questo sia il linguaggio e questa la considerazione dell’altro sesso.

Michele Placido, trovo che il suo personaggio sia tratteggiato molto bene. Volevo sapere come lei e Monicelli avete lavorato a questa figura; volevo poi chiedere a Giorgio Pasotti com’è stato lavorare con Monicelli.

Placido: Vorrei premettere, come ho già detto, che Monicelli è Monicelli, è la "Storia del Cinema". La sorpresa è stata di essere lì e imparare ancora. Non perché non si possa imparare da uno di novant’anni, ma questo è un mestiere infame, arrivi a cinquant’anni e già non ce la fai più: fare il regista a sessant’anni per me è un problema, perché veramente per farlo ci vogliono le forze, e forze speciali. Vedere un signore come Mario Monicelli che nel deserto s’incazza (sic!), manda affanculo (sic!) Haber varie volte, anche me e Pasotti, tutti, con una forza, con un piglio..!

Monicelli: Ci mandavi anche tu affanculo..

Placido: Mario ha creato un’energia straordinaria fra di noi. Vi confesso che qualche giorno prima che fosse il mio turno per girare, io ero comunque sul set. gli stavo un po’ vicino, e lui ogni tanto mi guardava e diceva: “Ma perché mi stai sempre attorno?”. A un certo punto ho compreso che Mario non aveva bisogno assolutamente di nulla.
Ci ha dato una grande lezione su come si fa questo lavoro, questo ho imparato. Il personaggio è cresciuto nell’entusiasmo che c’era per tutto. Alla sera quando noi esausti si discuteva, senza essere tanto convinti, se uscire per la cena, Monicelli, dopo una giornata di duro lavoro, entrava nella hall e diceva: “Oh! Ma non se va a magnà da qualche parte?”. Insomma, abbiamo sempre lavorato insieme, Mario ha voluto renderci complici in ogni maniera e per ogni cosa.

Monicelli: Il lavoro era difficoltoso, quindi andava innanzitutto tenuta insieme la troupe. Le difficoltà quando si gira nel deserto sono tante e bisogna superarle con spirito da commilitoni, stando insieme, sghignazzando insieme. Io sghignazzavo poco perché ero preoccupato, ma loro erano contenti, si divertivano, non so come, erano “in palla”, e così le cose sono andate avanti.
Inutile comunque stare a parlare di difficoltà: se il film viene male uno si giustifica con le difficoltà, se viene bene si tesse subito l’elogio del gran risultato in mezzo a mille ostacoli!

Placido: Il film forse poteva ricevere maggior attenzione da chi di dovere. I produttori hanno faticato molto a mettere quattro soldi insieme. Mario non vuole dirlo per educazione, ma abbiamo avuto molti problemi a livello produttivo. E chiudo il discorso..!

Monicelli: Con Haber è stata una battaglia! Dovevo trattenerlo perché è uno che da suggerimenti. Ma lo ha fatto per tre, quattro giorni, poi ha capito che doveva starsene zitto.

Haber: Una settimana prima di partire per il film avevo incontrato Silvia D’Amico al teatro Valle che mi aveva detto: “Stai partendo per Monicelli? Mi raccomando, digli sempre di SI, comportati bene, non alzare la voce, non fare scatti!”. Questa competizione tra me e lui c’è stata, e ho subito colpi di ogni genere, ma con piacere.

Pasotti: Io, a differenza di Haber, sono stato proprio "zittissimo" per due mesi e mezzo di riprese, sfruttando l’opportunità di essere lì. Non capita a molti giovani attori di poter andare alla “Oxford del cinema” a fare un corso superintensivo. Superati i primi timori reverenziali abbiamo tentato tutti di cogliere e imparare il più possibile. Forse la cosa più importante è stata capire che il cinema è senz’altro una cosa seria, ma se affrontata con lo spirito di Monicelli, con leggerezza e ironia, le cose vengono anche meglio.

Quanto c’è del romanzo di Tobino nel suo film?

Monicelli: Del libro di Tobino c’è abbastanza, ma ovviamente non tutto. Tra i personaggi, quello di Haber, che nel film è un intellettuale, per Tobino è uno squilibrato che finisce anche in un manicomio militare. Il personaggio interpretato da Tatti Sanguineti è rimasto abbastanza simile a come descritto nel libro, e appartiene proprio a Tobino, che parla di questo generale con la fissazione dei cimiteri. E’ stato utile a me che amo la farsa, che è un genere ormai raro, difficile da fare. Me la sono vista bene con Tatti, anche lui ama molto la farsa e la satira, tramite la quale si può vedere in un determinato modo la situazione, il deserto, questo ambiente squallido, dove non c’è romanticismo... Non ci sono le dune nel deserto, c’è una sabbiaccia sporca e basta, con delle palme rinsecchite. Anche questo ho voluto far vedere, e mi è riuscito solo in parte per alcuni problemi di carattere fotografico che non ho saputo risolvere. Quest’atmosfera è molto presente nel libro, e io e Tobino, che ci incontravamo spesso a Viareggio, parlavamo anche di queste cose.

Maestro, quanto c’è della sua esperienza di guerra nel film, quale personaggio la rappresenta di più? E poi, il tono del film, in parte farsesco e comunque mai completamente tragico... è una scelta ben precisa quella che lei fa.

Monicelli: La scelta del tono non nasce in questo film, ma da molto più lontano. Tutte le volte che ho potuto ho voluto esprimermi in un certo modo. E’ lo stesso linguaggio, quello de La Grande Guerra, I Soliti Ignoti, Amici Miei, Speriamo che sia femmina: si tratta di commedia, con dei risvolti amari e tragici. Esiste da sempre, è la commedia all’italiana, che non ho inventato io, è nata tanto tempo fa da un gruppo di cineasti, attori, sceneggiatori, e registi: si chiama all’italiana...
Il personaggio che preferisco è quello di Placido, fra’ Simone, con questo suo atteggiamento sollecito verso il prossimo, anche se non così “abnegativo”... possiede anche toni leggermente didascalici, caratteristica che appartiene a Placido come persona. Ma non è un personaggio di Tobino, è un frate che ho conosciuto io in Abissinia, che era proprio così. E per il suo ruolo volevo Placido, per forza.

Placido, il personaggio di fra’ Simone mi ha ricordato nella ruvidezza della sua fede, concreta, contadina, il Padre Pio televisivo che lei interpretò qualche tempo fa.

Placido: Il personaggio sicuramente è un mistico, come Padre Pio. Si tratta di personaggi accomunati anche da una naturale autorità, un naturale carisma. E forse io sono un po’ così, anch’io ho quel tipo di carattere: sembra incredibile che la stessa base caratteriale io l’abbia prestata a questo personaggio come anche a quello di Provenzano... E forse si tratta di personalità che hanno a che fare anche con un’italianità, con un modo di essere che è quello, e che sappiamo bene interpretare. Per il resto io mi affido molto ad Orson Welles, che per creare i personaggi raccomandava di non affidarsi ai cliché dell’Actor’s Studio, ma di leggere buone biografie: in esse spesso sono reperibili degli aspetti dell’animo umano affascinanti e che tornano poi utili al mestiere di attore.

Monicelli, a parte le difficoltà di lavorazione sul set stesso, quali sono state le maggiori difficoltà nella preproduzione, lei si è sentito tradito da qualcuno?

Monicelli: Tradito francamente no, tradito da nessuno, perché mi dovevo sentire tradito? Mettere in piedi un film da girare tutto nel deserto, con i mezzi militari, cannoni, aeroplani che bombardano, tantissimi attori, non è una cosa che si mette in piedi facilmente, io questo lo sapevo. Non è che mi sono mai disperato, ho sempre sperato che malgrado le difficoltà il film si potesse fare. Il termine disperato non mi appartiene, nella vita non sono lo sono mai stato, anche se ho avuto i miei guai. Se il film non si faceva... ne avevo già fatti sessantaquattro!

Monicelli, nel film più volte ricorre la Croce, insieme alla figura di Dio. Volevo chiederle come ha letto lei questa figura e perchè c’è questa presenza forte del Crocifisso.

Monicelli: Come l’ho letta io? Come voi vedete, nel senso che c’è un frate per il quale questa figura è basilare. C’è spesso un Crocifisso? Non me ne sono mica accorto... la Croce fa parte di qualsiasi ambiente di guerra, dove c’è gente che va morire, non se ne può fare a meno. Il rapporto con l’aldilà non poteva essere evitato in questo racconto: ma è posto in maniera laica, non c’è per forza bisogno di essere religiosi per affrontarlo. Il rapporto con la religione che vedete nel film secondo me è laico: anche il frate è un laico che si dedica agli altri, ed è tollerante, anche nei confronti delle infrazioni alla dottrina.

Placido: Ora mi viene in mente una cosa, Mario. Perché non hai messo un cappellano, che è una figura più classica negli ambienti militari?

Monicelli: Perché volevo un personaggio, ripeto, simile a quello che ho conosciuto, quel frate che andava in giro ad aiutare il prossimo. Il fatto di aiutare il prossimo gli dava felicità, forza di vivere.
I missionari poi hanno uno spirito d’avventura che li distingue, che loro possiedono veramente: la loro simpatia sta in questo.

Placido: Sì, ma tu credi in Dio?

Monicelli: Io non ci credo, non ci penso proprio.

Monicelli, l’Italia raccontata in questo film di guerra quanto somiglia all’Italia di oggi; a parte per come considerano le donne, quanto sono cambiati gli italiani?

Monicelli: Io credo siano cambiati poco, per quello che fanno, per come si comportano quando vanno in giro: credo molto poco. Ma non è una cosa negativa, perché non è che gli italiani per forza debbano cambiare in meglio o in peggio. Gli italiani se sono cambiati per certi aspetti sono forse cambiati in peggio (lo dico pensando alla gente che conosco dagli anni Trenta): ma sono anche molto generosi, è gente che non si perde mai d’animo... Io ho fatto quasi due guerre, perché sono del ‘15, e mi ricordo i racconti che facevano mio padre e mio zio, e quando sono andato io al fronte ho visto che gli italiani non erano cambiati affatto, le cose si facevano con gli stessi sentimenti, con la stessa positività nel vivere: quando sono insieme gli italiani sono positivi, non si lamentano, hanno sempre un motivo per essere felici, e poi se devono morire muoiono senza farla tanto lunga. Non vogliono essere né eroi né missionari, sono quello che sono sempre stati.
Se gli italiani si lasciassero andare per come sono, e per quello che sanno fare, sarebbe tutto migliore: purtroppo siamo guidati da persone che vogliono insegnarci come si deve vivere, come ci si comporta, come si deve agire... Soprattutto vogliono convincerci che quello che oggi ci deve guidare non è stare tra gli amici, perdere tempo stando insieme a chi si ama: al contrario si dovrebbe badare soltanto a far crescere l’economia. Se l’economia deve dominare tutta la nostra vita è finita, e purtroppo è quello che si sta facendo, attraverso violenza, guerre e sopruso sociale: è l’economia la vera maledizione della nostra generazione. Regolare la vita secondo criteri economici è l’imperativo categorico, e anche se gli italiani sono quello sono e dovrebbero essere, non ce la fanno, non possono resistere alla sostituzione dell’uomo economico all’uomo.

Di film sulle guerre e contro le guerre ne sono stati fatti molti: lei quale ama di più, è quale ha tenuto presente per il film?

Monicelli: Orizzonti di Gloria di Kubrick è il film di guerra che più mi è rimasto. In un certo senso, vorrei averlo fatto, perché secondo me è quello giusto, quello che si deve fare, e credo mi rispecchi molto.
Io però non sono un pacifista, credetemi. Quando nel ’39 Hitler voleva per forza fare la guerra, e Francia e Inghilterra si tiravano indietro perché avevano paura, io volevo la guerra, perché era la sola cosa che potesse liberarci dal fascismo e dal nazismo. Quando è iniziata anche per noi io ero contento e felice, e con me lo era gente che condivideva la mia idea. Quando passavano i bombardieri avevo paura che mi ammazzassero, però ero contento che venissero e finalmente si reagisse agli eserciti tedesco e italiano.
Non crediate che sia un pacifista, perché non è vero.

Noi abbiamo uno scenario politico molto complesso, la Sinistra è spaccata, è c’è questo fatto, di cui si parla ormai da settimane, dei pupazzi dei carabinieri e dei militari di Nassirya bruciati in piazza. Non temete che il film, che comunque, al di là di quanto dice Monicelli, ha un coté pacifista molto evidente, possa essere attaccato sotto questo profilo?

Monicelli: Non è che perché faccio un film sulla guerra, dove si vede morte e sofferenza, sono un pacifista a tutti i costi.. A costo di che? Per stare sotto il nazismo e diventare un massacratore dei più deboli, razzista e tutto il resto?

Può dire qualcosa a proposito del rosario di attori minori presenti nel film, dei soldatini?

Placido: Io credo che Mario abbia fatto un lavoro straordinario. Durante il casting io ogni tanto lo chiamavo per sapere come andava. Mi diceva di essere in difficoltà perché gli attori che si presentavano per questi ruoli erano tutti palestrati, tutti belli. In quel momento pensavo ai miei attori di Romanzo Criminale...
Mario aveva ragione, perché in quegli anni la popolazione era diversa: così ha scelto di prendere dei ragazzi non attori, con una fisicità differente. Anche se non hanno dei ruoli importanti sono diversi i personaggi nel film che non sono attori. E poi nelle scene più popolate, quando si vedono gli italiani tutti insieme, la maggior parte di quelli sono tunisini (il film è girato in Tunisia, n.d.r.). Noi eravamo così un po’: se vediamo le foto degli italiani negli anni Quaranta, sembrano tutti nordafricani. Il nostro poi è stato un gruppo di lavoro dove non ci sono stati protagonismi, questo lo posso dire. _ Per Mario i ruoli sono tutti uguali: non usa i primi piani.

Moran Atias, com’è stata la sua esperienza?

Moran Atias: Sicuramente unica, perché sono stata l’unica ragazza in mezzo a tanti maschi, dopo un periodo che hanno vissuto veramente in mezzo al nulla... (scroscio di risate tra il pubblico). No, non in quel senso! Però era un po’ imbarazzante.
A parte questo, è stato per me un grande onore lavorare con il maestro, i complimenti glieli ho già fatti e non vorrei ripetermi. Per me è stato tanto importante anche solo osservare, stargli vicino, e vedere con quanta forza lavora, sapendo esattamente cosa vuole, prima di girare. Tutto questo è veramente ammirevole.

Monicelli: Vorrei dire un’altra cosa sugli attori. E’ una tradizione del nostro cinema questa qui, non è che mi sono inventato io di prendere gli attori “dalla strada”, insomma da altre attività. Fa parte della tradizione italiana pescare questo tipo di personaggi tra la gente. Dovevo mettere insieme un gruppo di attori che rappresentassero gli italiani di allora, che erano bassotti, coi culi bassi, le gambe corte: l’esercito italiano era fatto da gente così. Al casting, per questi ruoli si presentavano diciottenni alti, belli, flessuosi, palestrati, che non rappresentavano per niente la realtà che io avevo conosciuto.
Poi, comunque, se prendi un ragazzo italiano, piccolo borghese, o anche proletario, e gli metti una divisa addosso, immediatamente diventa un grande attore, sa come deve comportarsi come deve parlare muoversi, bere. I maschi con la divisa addosso si sentono subito a loro agio, come le donne quando si vestono da puttane. E’ vero! Anche se è una cosa che non sanno fare, le donne l’hanno, la studiano molto bene e forse la rimpiangono.

Placido: No, ma lui intende il gioco... mentre i maschi si trovano bene a giocare al soldato, le donne...

La conferenza si chiude con le parole di Placido che tenta di rappezzare le ultime infelici battute di Monicelli, mentre è gelo tra le signore del pubblico...


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