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Documentaria - Le 7 vite del rock

Pubblicato il 11 settembre 2011 da Marco Di Cesare


Documentaria - Le 7 vite del rock

Il 1965 fu l’anno in cui un’intera generazione di baby-boomers abbandonò la sua scioccamente quieta adolescenza, per abbandonarsi alle lascive good vibrations concesse dalla maturità della musica con l’afflato probabilmente più potente che abbia mai attraversato il Novecento. Perché talmente forte fu l’impatto di Satisfaction, My Generation e You Really Got Me che la cultura di massa cambiò grazie a riff e distorsioni che crearono una frattura tra il passato e il presente, origine di un futuro imprevisto e imprevedibile. Pete Townshend in un’intervista del 1967 affermò che quella degli Who era Pop art, un movimento che aveva coinvolto milioni di persone e aveva cambiato il modo stesso di pensare le modalità dell’espressione artistica, investendo qualsiasi aspetto della loro attività, compresa la presenza scenica. Mentre fu a causa di The House of the Rising Sun, acida cover degli Animals di una vecchia canzone folk riportata in auge da Bob Dylan, se quest’ultimo da menestrello divenne un rocker che rivoluzionò la composizione di brani rock attraverso la celeberrima Like a Rolling Stone. E poca importa se da quel momento in poi venne abbandonato da una parte del suo pubblico al grido di «Giuda!». Perché Dylan aveva trovato un gruppo che poteva accompagnarlo attraverso le sue nuove elucubrazioni, quella The Band che oltre dieci anni dopo verrà immortalata da Scorsese attraverso L’ultimo valzer, il concerto che chiuderà la loro carriera.
Solo una cosa gli artisti si permettevano in quegli anni: seguire la propria strada, perché il Rock era diventato il luogo privilegiato della sperimentazione, incontro di musica, messa in scena e anche messaggio politico, nel suo senso più o meno ampio.
Le 7 vite del rock è un ciclo di documentari della BBC risalente al 2007, approdato in Italia due anni dopo grazie a History Channel (e, da noi, commentato dalla voce narrante di Enrico Ruggeri) e ora riproposto in chiaro da Rai 5. Diviso non secondo una sequenza cronologica, bensì per le linee dei generi (nell’ordine, le radici Blues, l’Art Rock, il Punk, l’Heavy Metal, il Rock da stadio, l’Alternative e, infine, l’Indie), scelta quest’ultima che reputiamo come condivisibile.
L’esito del primo episodio è assai pregevole: presenta finalità sì didattiche, ma senza esprimerle mai in modo banale, rimanendo ancorato a una visione analitica della materia narrata che, però, non tralascia una certa partecipazione emotiva. Filmati d’epoca sono intervallati da brevi segmenti di interviste ai reduci di quegli anni e a giornalisti della critica musicale, utili a ricostruire lo spaccato di un periodo carico di significato, attraverso un ritmo assai serrato che si acquieta solo quando si torna a un presente dai colori digitalmente caldi. In particolare rimane impresso Keith Richards che rivela l’emozione di suonare Blues, di toccare le radici della musica popolare; oppure il ricordo di come il riff di Satisfaction gli venne in sogno, sotto forma di un lento blues. O, ancora, la divertita alterigia di Ginger Baker, che decanta le incredibili capacità tecniche dei Cream, quando sui muri si scriveva che Clapton era Dio.
Musica nuova per menti giovani in cerca di qualcosa di viscerale, dopo anni di oscurantismo legato al predominio di un consumismo imposto dall’alto – non diversamente da oggi, immaginiamo – dove bambolotti di carne venivano spacciati come messia, quando, in realtà, erano degni solamente di diventare re da denudare, al fine di mostrare la loro conformistica ovvietà espressiva e culturale. Mentre le nuove generazioni cresciute nei sobborghi e nelle periferie delle città occidentali volevano provare emozioni grazie a un ritorno al Blues, alla musica tutt’altro che tranquilizzante che era stata spazzata via dall’industria discografica. Percorso che culminò nella nascita del rock moderno (e bianco, aggiungiamo), principale oggetto di studio dei cinquanta minuti di documentario, che appena un po’ si soffermerà sui grandi bluesmen neri che ispireranno la rivoluzione anglo-americana.
Ma quella stagione d’oro durerà poco. Perché ad Altamont, alla fine del 1969, terminerà l’era dell’innocenza del rock che, da allora in poi, secondo Roger Daltrey scivolerà sempre più sotto il controllo dell’industria musicale, con meno libertà per gli artisti. Let It Bleed cantavano i Rolling Stones, capaci di cogliere lo spirito dei tempi e di segnare il passaggio verso il nuovo decennio. Che sanguini pure. E il mondo, da quel momento, come per una macabra magia comincerà a sanguinare per davvero.

Sito de Le 7 vite del rock sulla BBC


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