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Escape at Dannemora (Miniserie) - Teste di Serie

Pubblicato il 14 gennaio 2019 da Stefano Colagiovanni
VOTO:


Escape at Dannemora (Miniserie) - Teste di Serie

«Se credi che riuscirai a uscire, i muri sono sono dei semplici ostacoli...»
David Sweat

Tre fuggitivi a Dannemora

Non sempre dietro una storia ambientata in un contesto coercitivo, come spesso accade nei cosiddetti “prison-movie”, albergano solamente sopravvivenza e morte, o desiderio di fuggire via, di riconquistare quella libertà perduta; a volte, insieme a tutto ciò, si cela una struggente riflessione sui rapporti umani. Amicizia? Semplice collaborazione? A ognuno la libertà di intenderla come preferisce.

Escape at Dannemora è una cartolina che racchiude tutti questi segmenti. Ideata da Brett Johnson e Micheal Tolkin, si basa su eventi realmente accaduti: nel 2015, nei meandri del piccolo e rigido comune di Dannemora, nello stato di New York, i detenuti Richard Matt (un serpentesco Benicio Del Toro) e David Sweat (un Paul Dano dallo sguardo sperduto e pieno di fascino), fuggono dal carcere di massima sicurezza Clinton Correctional Facility, escogitando un piano impeccabile, messo in pratica in settimane di estenuanti scavi sotterranei; a loro si intreccia la vita sincopata di Tilly Mitchell (una vulcanica Patricia Arquette, imbruttita ad hoc, per un ruolo magmatico), sarta che lavora nella stessa prigione a contatto con i detenuti.

Di episodi analoghi la storia del cinema ne è piena: dai leggendari Fuga da Alcatraz di Don Siegel, o al Papillon di Franklin J. Schaffner, passando per Le ali della libertà di Frank Darabont, se ne possono citare a bizzeffe, senza dimenticare la serie tv cult Prison break, ideata da Paul Scheuring, le imprese di carcerati più o meno innocenti sono innumerevoli; stavolta i due detenuti impersonati da Del Toro e Dano sono tutt’altro che uomini senza macchia e, a ben vedere, senza paura, considerata la portata e i conseguenti rischi che la loro missione comporta.

Alla regia c’è Ben Stiller, qui al suo esordio per la televisione. Dalla sua presenza, in realtà una solida sicurezza, Escape at Dannemora si sviluppa con insindacabile coerenza narrativa, supportata da un impianto visivo solido e certosino: Stiller non si tira mai indietro e segue i protagonisti, pedinandoli letteralmente, entrando nelle loro vite da carcerati, da reietti del sistema, da uomini-fantasma. Tra gli angusti corridoi del penitenziario o nel dedalo boschivo di un’america quasi immacolata e fuori dal mondo, Stiller si divincola con apprezzabile fluidità, avendo cura per i dettagli, attento a concentrarsi quasi morbosamente – ma mai senza esagerare – sui volti espressivi di due interpreti giganteschi, maschere superbe e (dis)umanizzate, animali in gabbia dalla ferocia sopita, latente, ma pervasiva.

Nel momento in cui Escape at Dannemora pare esaurirsi soltanto come una quasi pedissequa riproposizione di tali eventi, seppur incastonata in un’opera magnetica e accuratamente strutturata, ecco che nel momento di maggior climax, che disegna gli ultimi attimi di fuga dei due, il senso sgorga fuori, accogliendo ossigeno a pieni polmoni, prima di soffocare: la miniserie risalta il desiderio e il bisogno dell’uomo di instaurare rapporti, non solo quelli d’amicizia; non s’attacca a valori altisonanti, ma scruta nelle tenebre per scovare la luce che, nel caso, splende fintanto che regge quell’intesa, quella collaborazione e unità d’intenti che esiste tra Matt e David. Ed ecco, che i due soccombono proprio nel momento in cui si separano, incapaci di compiere con naturalezza l’ultimo passo, dopo aver abbattuto muri insuperabili e macinato chilometri terrificanti.

Nel gran pezzo di bravura della miniserie targata Showtime, spicca, però, il diamante più fulgido e più grezzo – perché impolverato dal tempo perduto: la Tilly Mithcell di Patricia Arquette è anch’essa una reietta, una prigioniera di una vita che non hai mai sentito propria, una rivoltosa dal pessimo carattere, egoista e opportunista - tanto da rovinare l’esistenza di tutti i suoi cari o conoscenti, su tutti quella del compagno Lyle, interpretato da un Eric Lange magnificamente sgraziato e sciatto; Tilly è l’altra faccia della medaglia, quella dell’America che disprezza e si fa disprezzare, che nulla sembra spartire con un manipolo di detenuti, ma che coltiva molte più affinità con essi di quante se ne possa enunciare. Brutta e grassa, Tilly è il nucleo attorno al quale vorticano personaggi ed eventi, è l’ingranaggio che stabilizza la narrazione e le infonde brillantezza e profondità. Che se ne dica, la vera protagonista dell’opera.

Escape at Dannemora non introduce nulla di nuovo nel genere, è evidente. Ma non occorre riuscire a inventare qualcosa di totalmente alieno per potersi definire originale: basta sapersi reinventare e raccontare con acume e convinzione una vecchia storia. Vecchia, come la lezione che alcuni proprio non riescono ad apprendere: la vita è breve e sprecarla per sfamare fugaci e dannosi appetiti non apre alcuna porta, se non quella della propria prigione.


(Escape at Dannemora); genere: drammatico, thriller; stagione ed episodi: miniserie, 7; showrunner: Brett Johnson, Michael Tolkin; regia: Ben Stiller; interpreti: Benicio del Toro, Patricia Arquette, Paul Dano, Bonnie Hunt, Eric Lange, David Morse; produzione: Michael De Luca Productions, Red Hour Productions; network: Showtime (U.S.A., 28 novembre-30 dicembre 2018), Sky Atlantic (Italia, 4 dicembre 2018-15 gennaio 2019); origine: U.S.A., 2018; durata: 60’; episodio cult: 1x06 - Part 6 (1x06 - Parte 6)


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