Festival del Film di Roma 2014 - The knife that killed me
La cosa che colpisce di più dal primo fotogramma di The knife that killed me è l’impianto visivo: interamente girato in studio, ambienti teatrali tipicamente neri, quinte come lavagne su cui giganteggiano scritte a mano col gessetto, disegni mostruosi, lupi dalle fauci pronte all’azzanno, teschi, linee segnaletiche che evocano morti ammazzati. Pochi elementi squarciano un bianco e nero quasi totale: un mazzo di tredici rose rosse (più da funerale che da primo appuntamento), una testa mozzata della carcassa di un cane, sangue. Le parole si fermano sui muri come graffiti-presagio, stralci di dialogo escono da una bocca e restano presenti per sempre, il passaggio dalla potenza all’atto vibra negli sguardi, nei tremiti, nei sussurri.
La trama è classica: Paul, un sedicenne che ha appena perduto la madre in un incidente, si trasferisce con il padre da Leeds in un’altra cittadina di provincia inglese: al liceo ha difficoltà di adattamento incappando in Roth, classico bullo in cerca di prede. Nel frattempo entra a far parte del gruppo dei "freaks", gli emarginati, i più strani della scuola che non si metteranno mai a giudicarlo. Una spirale di azioni a catena sfociano in tragedia. Il capo branco Roth possiede il segreto per vivere bene "Se non odi sei felice" ma Paul, infedele seguace, non lo farà mai suo divenendo così vittima sacrificale di un sistema stritolante.
Il protagonista (Jack McMullen) ha il viso gonfio e incerto del ragazzetto problematico, ricorda in versione contemporanea Bud Cort di Anche gli uccelli uccidono e, come l’inquieto personaggio di Altman, assume in sé la fascinazione per la potenza, l’esaltazione della forza (attraverso il possesso del coltello del titolo), la fragilità imberbe di chi ha difficoltà ad accettarsi e farsi accettare (emozionante, seppur già vista, la trovata di lasciare messaggi vocali alla segreteria telefonica del telefono della madre che non li ascolterà mai). Tutti i ruoli sono recitati con stile volutamente enfatico, con l’eccesso proprio dell’età acerba.
La voce fuori campo porta lo spettatore dove vuole, in combutta con i registi sceneggiatori (Kit Monkman, Marcus Romer) che vogliono farlo cadere in trappola. Colpi di scena, violenza, bullismo insieme a movimenti di macchina fatti in post-produzione in un universo labirintico alla Dogville. Una storia che si ripete di generazione in generazione, di padre in figlio, un odio perpetuato in zone separate da cancelli invisibili e invalicabili, reucci violenti di razze diverse che giocano alla guerra perché la morte, l’odio, la violenza sono dappertutto poiché, inevitabilmente, li portiamo dentro di noi. Un film tragico, senza speranza, senza soluzioni né riscatti. Il peggio si verifica sempre, comunque e nessuno può contrastarlo. Apocalittico.
(The knife that killed me); Regia: Kit Monkman, Marcus Romer; sceneggiatura: Kit Monkman, Marcus Romer; afotografia: Kit Monkman; montaggio: Thomas Mattinson; musica: Tom Adams; interpreti: Jack McMullen, Reece Dinsdale, Jamie Shelton, Oliver Lee, Charles Mnene, Rosie Goddard, Andrew Ellis, Reece Douglas, Kerron Darby, Haruka Abe, Richard Crehan; produzione: Alan Latman, Thomas Mattinson; origine: Inghilterra, 2014; durata: 101’.