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Fiction Italia – Il sorteggio

Pubblicato il 20 ottobre 2010 da Marco Di Cesare


Fiction Italia – Il sorteggio

Ci si trova di fronte a una dolce sorpresa, finanche inaspettata laddove si debba pensare alla produzione media della fiction italiana per la generalista prima serata Rai. Giacché Il sorteggio è un’opera a tratti addirittura pregevole, un film per la tv con alla base un’idea forte che viene incanalata in una forma che riesce spesso a liberarsi delle ristrettezze del piccolo schermo tipicamente italico.
Soprattutto si tratta di una sorta di novità che naviga lungo la corrente di quel fiume tranquillo che è la consuetudine Rai. Perché questa commistione tra novità e tradizione (giustamente sottolineata nel corso della lunga e a tratti estenuante presentazione che ha preceduto la proiezione in anteprima nell’Auditorium della Conciliazione, durante il RomaFictionFest 2010) diviene qui un punto di incontro tra la poetica di un’azienda e il tentativo di rappresentazione di una individualità attraverso un diverso punto di vista. Ovverosia l’idea di un uomo come tanti altri che rimarrà coinvolto in una storia più grande di lui (e, nella fattispecie, dai risvolti tragici) e il progetto di raccontare una storia da un prospettiva inusuale, una Storia che molte volte è stata raccontata negli ultimi decenni in Italia, ma mai attraverso gli occhi di una persona fra tante: né, quindi, una vittima del Terrorismo, né tantomeno un rappresentante dello Stato.
E in fondo il protagonista più solito di una vicenda del genere non poteva che essere Beppe Fiorello, ossia l’eroe più comune dei nostri tempi, il volto televisivo dal quale mai ci si attenderebbe una qualsivoglia capacità di fare del male ad alcuno. Un uomo che qui si è calato nei panni di una tuta blu: Tonino, un operaio trentenne proveniente dalla zona di Catania che lavora in una fabbrica della Fiat, a Torino. La sua epoca è quella degli anni di piombo, gli anni Settanta delle Brigate Rosse che avevano spaccato in due il fronte della Sinistra (più o meno rivoluzionaria, più o meno ‘borghese’) e che erano giunti, oltre che a mietere vittime secondo loro colpevoli di crimini contro il popolo, anche a spaventare e ad uccidere i cosiddetti collaborazionisti del potere, cioè chi non era loro alleato, chi la testa l’aveva alzata: sindacalisti non allineati, avvocati ma persino la ’gente comune’, come quella sorteggiata per divenire parte di una giuria popolare, persone rapite da una mano sconosciuta e lontana che aveva cominciato a manovrare i fili delle loro vite.
Un onore che è difficile da comprendere per chi vive nella violenza (quella del Sistema come quella di chi si erge a suo giudice infallibile), nell’alienazione di tutti i giorni che si può respirare lungo una catena di montaggio dove un ragazzo appena sposato può vedersi tranciata mezza mano in un solo colpo. Un mondo dove le parole stesse sono piombo rovente, saette lanciate contro i propri nemici e utili per aprire la strada agli eventuali colpi finali della P38. Un orrore dal quale è forse lecito allontanarsi vivendo il proprio sogno in un mondo lontano, sotto le luci che illuminano un palcoscenico: come le serate trascorse a ballare con la propria fidanzata, in concorsi per gente comune nei quali vengono messi in palio premi milionari. Un mondo che sembra appartenere a un passato lontano, fuori da qualsiasi contingenza. Un mondo nel quale un giorno, forse, nascondersi non sarà più permesso.
Perché Tonino, volente o nolente, prima o poi dovrà prendere coscienza, dovrà affrontare il problema della sua esistenza in una comunità cui è sempre appartenuto (il suo Paese, lo Stato), seppure se di certo non se ne era mai accorto fino ad allora. Un senso del dovere cui rispondere, formando però una propria risposta dentro di sé, senza vere forzature oltre all’esempio altrui (come l’amico sindacalista Gino Siboni, interpretato da un quasi convincente Giorgio Faletti). Mentre il tutto si snoda lungo i cento minuti diretti da Giacomo Campiotti, che ha lavorato su di una sceneggiatura di Giovanni Fasanella, Giuseppe Rocca e Giorgio Glaviano (e per il cui soggetto il primo ha vinto, nel lontano 1996, una Menzione al Premio Solinas), uno script che porta avanti idee che sanno farsi spazio con tenacia. Ma soprattutto ciò che si fa sentire è una regia che sa come lasciar trapelare un senso di costante nervosismo e anche di oppressione, fin dall’inizio. Sensazioni che nascono pure dall’attrito generato dal contrasto tra mondi inconciliabili: ovvero la realtà contro l’idealistico rifugio delle idee. Contrasti che tornano nelle lotte tra le due anime della Sinistra, come nell’archetipo dell’uccisione del Padre e di ciò che questi rappresenta. Divisioni, però, dalle quali un giorno si potrà forse ripartire: possibilmente tutti insieme, tanti uomini comuni l’uno accanto all’altro, come in un sogno.


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