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GUERRILLA ZAPPING – “Carlos”, di Olivier Assayas

Pubblicato il 4 maggio 2011 da Sergio Sozzo


GUERRILLA ZAPPING – “Carlos”, di Olivier Assayas

Si disperde come il suo protagonista l’avventura distributiva del Carlos di Assayas. Ed è divertente come quella che in fin dei conti appare come la riflessione centrale non solo di questa ultima fatica ma anche quantomeno dei precedenti, esaltanti Boarding Gate e L’heure d’eté, ovvero il destino sentimentale delle merci all’interno della loro travagliata odissea in giro per il mondo (post)industriale, sia applicabile anche alle sortite di queste quasi 6 ore di biopic (meglio, una sorta di), apparse per la prima volta a Cannes nell’edizione 2010, oggi disponibili in blu-ray e dvd d’importazione, ridotte a una versione ‘cinematografica’ di meno di 180’ che causò numerosi grattacapi all’ultimo Festival di Roma, mai distribuita nelle nostre sale ma avvistata più volte tra rassegne e retrospettive in giro per l’Italia, e finalmente questa proiezione integrale satellitare sulle frequenze di FX, ogni giovedì a partire dallo scorso 21 aprile.

La prima parte mette subito le cose in chiaro: Assayas ci catapulta in un furibondo girotondo di città, lingue, storie e personaggi differenti, nel magma ribollente della lotta armata degli Anni Settanta, in cui incrociare magari l’infuocato pamphlet di Jean-Francois Richet Nemico Pubblico n.1, o l’allegoria potentissima del Koji Wakamatsu di United Red Army. La riflessione di Assayas non conosce centro nevralgico né posa, ma si muove incessantemente come l’obiettivo della sua macchina da presa: lo sguardo sembra davvero essere ancora quello di Asia Argento sperduta tra le infinite porte d’imbarco possibili per attraversare il Mondo, capovolgendo lo spazio e il tempo con furia e senza soluzione di continuità.

Poi Assayas e il suo protagonista sembrano aver trovato finalmente un obiettivo. Questo porta alla maggiore, forse solo apparente coesione della seconda parte, tutta dedicata all’impresa che nel 1975 impresse il nome di Carlos nella leggenda: prendere in ostaggio i diplomatici riuniti per il meeting dell’Opec, e cercare di atterrare insieme alla compagine con un aereo dirottato in uno dei Paesi amici. Il ritmo è sempre serratissimo, Edgar Ramirez nel ruolo di Carlos mantiene costantemente la tensione di una recitazione voracemente famelica, e la colonna sonora sferra una dopo l’altra le vorticose sferzate new wave di cui è fine cultore l’Assayas rockettaro. Eppure è proprio in questa vicenda centrale che si inizia a percepire uno slittamento importante: nessuno vuole aiutare Carlos; nessun capo di Stato vuole far atterrare quell’aereo sul proprio territorio. Se prima Carlos era in grado di attraversare a piacimento la sua epoca e le diverse traiettorie della lotta politica internazionale, adesso per la prima volta l’uomo non ha più un rifugio in cui nascondersi, né un’identità riconosciuta e accettata: Carlos è un apolide, ed è solo.

E’ da questa prospettiva che si dipana l’ultimo terzo dell’opera di Assayas, quello magari meno adrenalinico (e infatti è la sezione di girato che fa maggiormente le spese dei tagli effettuati per l’edizione cinematografica), ma che introduce una magnifica teorizzazione da parte del critico-cineasta nei confronti dei metodi di fruizione dello spettacolo e dello spettatore televisivi. Ormai ridotto da militante armato a mercenario al soldo del miglior offerente fuorilegge, politico o meno, Carlos inizia infatti in questa parte finale a vagare a vuoto e sempre più affaticato per tutto il Mondo, cercando di racimolare incarichi e denaro. E’ l’incredibile e disperato zapping di un personaggio che non ha più alcuna reale motivazione ideologica, ma cerca soltanto un nuovo canale che possa catturare la sua attenzione. Come uno spettatore il cui senso morale sia stato ormai annullato dall’affastellarsi delle immagini catodiche, che passa veloce il dito sui tasti del telecomando senza che il messaggio di quello che vede possa risvegliarlo dalla noia: alla stregua degli oggetti della casa della madre defunta di L’heure d’eté, svuotati da ogni valenza affettiva e messi freddamente all’asta – “vieni, non voglio che ci trovino”. Ogni appartenenza è irrimediabilmente perduta.
Assuefatti alla spettacolare velocità della contemporaneità (e delle prime quattro ore della serie), Carlos e Assayas si costringono a rallentare per cercare di ritrovare il tempo di un pensiero sulle cose: il regista forza e piega le necessità del rapidissimo ritmo televisivo al passo della deriva in balia dei tempi. La velocità delle immagini ha finito per fagocitare Carlos: una volta uscito dal flusso, il combattente stremato si ferma e non è più perduto, o disperso. E questa diventa la sua condanna – essere mappabile, riconoscere infine lo spazio che si occupa come quello definitivo.


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