Il lieve peso del sorriso - Addio Ettore Scola

Ci ha fatti tutti più ricchi il passaggio di Ettore Scola al cinema.
Un passaggio non voluto, forse, almeno stando a quel che qualche volta ha raccontato. Un passaggio che qualche volta gli stava stretto e che spesso era più un fastidio che il piacere di una firma in calce a una cosa bella.
Lui per lo più amava disegnare e chiudere le magie del suo sguardo nel tratto graffiante della vignetta che tutto ferma in un solo colpo d’occhio. E questi suoi occhi intinti nell’acido ha portato in un cinema, come quello italiano, che ha sempre sospirato per bozzetti senza riuscire mai ad avere la sublime brevità dei nudi tratti di matita.
Il film, lo strano incidente della sua vita d’artista che non chiede le maiuscole mai, è stato nell’insofferenza delle etichette che gli altri gli appiccicavano addosso: commedia, autore, maestro. Etichette che lui sopportava come il cliente che entrava nel negozio di Concorrenza sleale ben sapendo che doveva accettare le mani del sarto e le punte di spillo che ti stringono le spalle, semplicemente perché fa parte del gioco.
Eppure con la sublime indifferenza di chi sta un po’ più in là, ti guardava negli occhi, di film in film, sfidandoti quasi a cercare tra le sue immagini il "messaggio". Proprio lui che pensava i film come cartoline da spedire, piene di immagini, colori e saluti. Come la foto che magnifica il senso di una storia in un solo fotogramma preparato con la pazienza frettolosa di chi ha un solo flash per illuminare ora è per sempre uno straccio di senso. Ed è La famiglia, tra i tanti suoi titoli forse il più denso.
Del cinema lo incuriosiva la possibilità di essere autore in mezzo agli altri.
Lo scrittore, lo ripeteva spesso, lavora da solo, combattendo con il bianco del foglio infilato nella macchina da scrivere. La sceneggiatura di un film, invece, è un braccio di ferro tra più nomi che ragionano pensando alla storia, a come renderla, a come farla passare attraverso le psicologie dei protagonisti del racconto. Ed una volta che si ferma poi passa al vaglio degli attori (lavoro da lui amatissimo, che lo toglieva dallo scomodo seggiolino obbligato dietro la macchina da presa per riportarlo nella confusione del set), della ripresa e del montaggio. Sotto mille sguardi in cui ognuno lascia qualcosa di sé anche se la responsabilità del tutto è sempre del regista che chiude e sintetizza nella forma.
Entomologo di natura sopraffina, Scola ha infilzato l’italiano medio nel periodo in cui il nostro cinema ha saputo essere meno autoindulgente e ci ha messo di fronte ad uno specchio in cui non potevamo non vederci Brutti, sporchi e cattivi. Eppure non ha smesso mai di lasciare che il suo canto si riempisse di pietà e di nostalgia, raccontando la giornata particolare dei diversi, degli emarginati, di chi sta fuori del sistema e un po’ se ne dispiace, soprattutto se nessuno gli ha insegnato l’orgoglio bello della sua posizione altra che apre scorci nuovi sull’orizzonte grigio dell’omologazione.
Così nel suo cinema c’è tanto spazio per la gente qualunque. Quella di Roma, in particolare, quella che ha giornate uguali a tante altre e in cui può accadere che un piccolo dettaglio scateni il volo di una discreta epifania.
E i suoi film sono tanto specchio quanto punto di fuga, medicina che brucia a contatto con la ferita ancora aperta e consolazione che ci trae fuori dalla Storia per rimetterci nell’universalità senza tempo del mito. Come il piccolo ebreo che fugge dal rastrellamento del ghetto di Roma nel 1943 per trovare rifugio dentro un cinema, dove la storia sullo schermo è distrazione, anche se non perde la sua dimensione di finestra su un mondo che non cambia mai abbastanza (il corto finisce nel 1997 con un altro bambino, questa volta di colore, che, scappando, entra nel cinema in cerca di salvezza e un barlume di speranza).
Scola è stato un grandissimo cantore della Roma che cambiava dal bianco e nero pasoliniano al digitale del cinema più recente. Ma ha cantato, attraverso il ricordo della sua infanzia, anche gli aspetti più spiacevoli dell’italiano: il suo strisciante razzismo, il suo congenito anelito al fascismo, il suo costante opportunismo (immortalato con forza attraverso la maschera di Sordi).
Eppure non ha mai dimenticato il lato umano, lo spazio del silenzio di chi ha finito le parole per dire il suo sconforto, il gesto piccolo che ancora vuol dire qualcosa nel grigio stinto della nostra vita confusa con lo smog.
E di questo non possiamo che esser grati. Ricordando non tanto chi abbiamo perduto in questo gennaio, mese più crudele, ma chi abbiamo avuto affianco fino a ieri. Uno che per tanti anni ancora ci sarà vicino come esempio da imitare e autore da ammirare. Con la bilancia che pende più dalla parte del sorriso grato che da quella delle lacrime perché è su quel piatto che lui ha lasciato, previdente, qualche peso in più.
