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Il mito del viaggio nel cinema americano contemporaneo

Pubblicato il 10 settembre 2012 da Alessandro Izzi


Il mito del viaggio nel cinema americano contemporaneo

Non necessariamente muoversi equivale a viaggiare. E non c’è bisogno di un Philip K. Dick per capire che si può viaggiare anche restando seduti più o meno comodamente sulla poltrona della propria casa.
Ma una cosa è certa: c’è modo e modo di viaggiare!
C’è chi viaggia nella brama dei luoghi, incapace di star fermo più di un’ora tra una meta e l’altra del suo tour e c’è che viaggia per incontrare persone, per stare a contatto con mondi altri e per scoprire meglio se stesso; c’è chi corre tra una stazione e l’altra lasciando che i paesaggi gli scorrano veloci dai finestrini dei treni in corsa e chi s’abbevera di polvere e avventura, facendo magari l’autostop.
Edward Morgan Forster, intramontabile autore di Camera con vista, direbbe, con spirito mordace, che c’è il turista e il viaggiatore. Il primo è chi si ricorda di Pisa solo che fu il posto dove vide “quel” cane giallo, il secondo è chi va a prendersi bertolucciani tea nel deserto, pronto a dimenticare gli orologi che gli indichino il fatidico sopraggiungere delle cinque del pomeriggio.
Il cinema americano, ci dice Letizia Rogolino nel suo libello edito dai tipi di Falsopiano, tiene dentro tanto viaggio da ben prima dell’anno domini 1969 che diede in natali a Easy rider (forse il primo road movie della storia consapevole della sua forma e dei suoi archetipi). Del resto una realtà sociale come quella americana, nata nella colonizzazione, perennemente in cammino da un oceano all’altro su pesanti carovane, doveva necessariamente avere nel mito del viaggio il suo specchio oscuro.

La saggista opera a monte una scelta non sappiamo quanto condivisibile: ridotti i discorsi teorici alla prima parte del piccolo volume, isola nel corpus complesso del road movie solo le produzioni dell’ultimo decennio, scegliendo pochi testi esemplari a far da base dell’analisi.
In un contesto ristretto di un libro piccolo piccolo la scelta ripaga in termini di leggibilità immediata, ma lascia, al fondo, troppo poco spazio per una disamina che si voglia originale oltre che completa. Considerando la vastità dell’argomento, l’impressione di trovarsi di fronte ad un bignamino piuttosto che ad un libro articolato e complesso è, così, scongiurata troppo raramente.
Nel giro d’orizzonte della prima parte, quindi, colpisce la visione spesso schematica del fenomeno, anche se si saluta con piacere la volontà di definire con chiarezza gli archetipi visivi e narrativi del Road movie andando a ritrovare al suo interno sia le inquadrature più iconiche (e, quindi, più utilizzate), sia le soluzioni narrative più ricorrenti.
Viceversa, nella parte più strettamente analitica (per inciso la più riuscita) non si capisce sempre bene il motivo dell’inclusione di un testo filmico a scapito di un altro che avrebbe potuto essere magari più pertinente o più interessante.

Se si accetta di buon grado di vedere Into the wild eletto a campione di un cinema picaresco in cui lo smarrimento nelle meraviglie di una Natura dapprima amica e poi matrigna, non si capisce, invece, il bisogno di dedicare a I diari della motocicletta di Walter Salles un intero capitolo anche in virtù del fatto che il film in questione è una coproduzione internazionale più Argentina che statunitense.
Quando, poi, nella sezione horror (un capitolo necessario ancorchè, forse, un po’ sbrigativo) si cominciano a seguire le disavventure di ragazzi inglesi nei deserti dell’Australia (siamo in pieno Wolf creek, produzione rigorosamente australiana) il senso di spaesamento supera definitivamente l’equatore.

Quel che dispiace è che sia taciuto al lettore il motivo a monte di tante scelte. E come sempre in questi casi, a farla da padrona, nel lettore, è il rimpianto di non vedere film amati prendere posto nel parterre selezionato dalla Rogolino. Noi personalmente, siamo perplessi di fronte ad un libro sui Road movie che riesce a non citare mai, nemmeno per incisi, Cuore selvaggio o Una storia semplice di David Lynch (film, quest’ultimo, che ridisegna completamente le coordinate del genere dilatandone all’infinito i tempi). Come ci dispiace che non si dica mai delle trasferte on the road di Wim Wenders che, certo, sono il tentativo più sincero di rileggere in chiave europea un archetipo americano, ma, anche per questo, ci sembrano più americani del già citato film di Walter Salles. E di qui le domande si moltiplicano all’infinito: perché, ad esempio, di Zemeckis citare i viaggi nel tempo di Back to the future e non dedicare qualche rigo in più alla corsa poetica da un capo all’altro dell’America di Forrest Gump?
Nel complesso, ci pare, Il mito del viaggio nel cinema americano disegna una cartina suggestiva del Road Movie contemporaneo, ma resta lettura light, da farsi in viaggio magari, mentre il treno ci porta a destinazione. Un’ottima cartolina, più adatta ai turisti del cinema che non per chi ha scelto, come inseparabile compagna di viaggio, la Settima Arte e tutte le sue muse.


Autore: Letizia Rogolino
Titolo: Il mito del viaggio nel cinema americano contemporaneo
Collana: Cinema
Editore: Falsopiano
Dati: 160 pp, brossura, illustrazioni in bianco e nero
Anno: 2012
Prezzo: 17,00 €
Isbn: 9788889782804
webinfo: Scheda libro sul sito Falsopiano, con possibilità di leggere anteprima e di acquisto online


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