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Il viso pallido numero 13 - Buster Keaton

Pubblicato il 5 febbraio 2016 da Vera Viselli


Il viso pallido numero 13 - Buster Keaton

Se ti chiami Joseph Frank Keaton forse potrebbe servire un soprannome, soprattutto per i tuoi genitori. E pensate la fortuna di avere come amico di famiglia Harry Houdini, che un giorno ti vede cadere dalle scale in modo rovinoso, rimanendo miracolosamente illeso, e si ritrova ad esclamare “che bel buster!”. Nomen nomen, ed ecco che inizia la carriera di uno dei più grandi attori comici della storia del cinema mondiale.

Figlio d’arte (i suoi genitori erano attori di vaudeville), non fu molto fortunato agli inizi: una sera, a New York, durante uno spettacolo, Joseph e Myra Keaton ricevettero una multa di 300 dollari per sfruttamento minorile (forse Buster era davvero troppo piccolo per recitare) e vennero interdetti dal proseguire le loro attività artistiche in città. Ma gli anni Venti furono un periodo d’oro per il genere ‘slapstick’ di Keaton, fatto di quelle gag fisiche che resero immortali Chaplin e Lloyd, lasciandolo un po’ alla loro ombra. La sua “faccia di pietra” - così era soprannominato, “Great Stone Face”, per la mancanza assoluta di sorrisi dal suo volto - rese la sua comicità più complessa di quella dei suoi ‘rivali’, rendendolo meno popolare, soprattutto se incrociata con la sperimentazione del mezzo cinematografico, di cui Keaton fu un autentico esploratore.

Pensiamo a Sherlock Junior (La palla n. 13, 1924, conosciuto anche come Calma signori miei), che ha in sé un elaborato film nel film - la sequenza del sogno del proiezionista (la cui tematica surrealista potrebbe accomunarla a quella più famosa di Vertigo) con la sua immagine in sovrimpressione che entra nel film proiettato in sala, è stata ottenuta dalla troupe posizionando la macchina da presa ad una distanza e in una maniera particolare in modo che l’ingresso risultasse fluido, attraverso strumenti di misurazione da geometra -, a The Cameramen (Il cameramen, 1928, noto anche come Io… e la scimmia) con la sequenza della prima proiezione alla MGM, che sottintende una raffinata parodia del cinema d’avanguardia, e con il finale, che racchiude la bellezza (e al contempo la semplicità) del cinema: nonostante le specificità dei mestieranti - operatore compreso - fare un film è alla portata di tutti, persino di una scimmia. Infine, a Film (1964), scritto da Samuel Beckett, in cui il protagonista arriva a cancellare se stesso dal cortometraggio.

Una parabola, questa, che sembra la stessa della carriera di Keaton, caratterizzata - in negativo - dall’avvento del sonoro, che gli concede meno libertà d’improvvisazione e che lo condanna ad un graduale declino, lasciandogli a disposizione esclusivamente ruoli minori e di contorno nei film sonori, come quello di Limelight (Luci della ribalta, 1952), una sorta di omaggio resogli da Chaplin, e Sunset Boulevard (Viale del tramonto, 1950). Joseph Roth diceva che tra Chaplin e Harold Lloyd vi è il comico più triste: Buster Keaton. Alla fine è lui a riportare la vittoria, ma quanto gli pesa... Non si abbandona mai al giubilo. Non conosce trionfi. Nelle sconfitte si sente quasi a suo agio. Quando vince, non dimentica la relatività della vittoria... Era triste anche nell’episodio di The Twilight Zone (Ai confini della realtà, Once Upon A Time, C’era una volta, 1961), in cui il suo Woodrow Mulligan, proveniente dal 1890 compie, suo malgrado, un viaggio nel tempo. Le battute finali recitano così: Ad ognuno il suo. Ecco un altro vecchio proverbio che il signor Woodrow Mulligan sottoscriverebbe di tutto cuore. Perché ha imparato sulla propria pelle la saggezza di un terzo proverbio che dice: ’Stattene a casa tua’. Un riassunto perfetto della sua vita.


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