Intervista a Fausto Romano

Grazie per aver viaggiato con noi ci è sembrato, nel complesso, un piccolo trattato sulla libertà individuale articolato su una serie di perdite: dapprima il bagaglio, poi l’identità, infine la memoria.
Quest’idea al fondo molto novecentesca e a tratti pirandelliana è nata insieme al personaggio o gliel’hai adattata intorno?
Appena si apre il libro, alla terza pagina si legge: Voglio essere libero, libero come un uomo. È una frase di Giorgio Gaber contenuta nella sua bellissima canzone La libertà, che io canto alla fine del mio incontro-spettacolo sul romanzo. La vita non è che una continua ricerca di una libertà: c’è chi la cerca nel lavoro, nell’amore, in una fede, in un luogo, andando a giocare a calcetto con gli amici,… così per il mio protagonista, che in una notte si rende conto che per lui libertà è una parola astratta, troppo astratta. Ha citato Pirandello e il novecento, sicuramente in questo periodo, grazie anche alla psicanalisi - di cui l’autore siciliano non è che un precursore – l’uomo è al centro degli studi e, mi vien da dire, la ricerca dell’uomo della sua libertà. Io vengo da Galatina, il cuore del fenomeno del tarantolismo che non era che una ricerca disperata di una libertà repressa, impossibile da raggiungere e quindi ecco lo sfogo nella musica e nel ballo. Una semilibertà che durava solo pochi giorni.
Parlando del personaggio: pur con tutte le sue simpatie, quello che hai costruito (e che probabilmente, se non altro a livello caratteriale, ci sembra mantenere possibili tratti autobiografici) è, in fondo, una sorta di uomo senza qualità che ha bisogno di interventi esterni per definire il proprio stesso destino: dapprima la perdita del bagaglio poi l’incontro con Julia. Si tratta di una possibile riflessione su una sostanziale inettitudine dell’italiano medio contemporaneo?
Non sull’Italiano medio, ma sull’uomo del nostro tempo sballottato tra i “mi piace” del mondo. Siamo succubi del giudizio altrui, schiavi di un apprezzamento e pur di recitare bene la parte del simpatico, del buono, del fesso, la famosa libertà vien meno. Siamo intrappolati in un giudizio esterno, troppo forte e nocivo. L’aeroporto nel quale si trova Severini, lo stare seduti su una sedia, è la metafora di una stasi, di un momento di stop che tutti noi dovremmo concederci per guardare alle nostre vite. E poi ripartire. Perché c’è sempre un ricominciare.
In un certo senso, pur non mettendo mai piede in Italia, ci sembra che Grazie per aver viaggiato con noi voglia essere uno specchio abbastanza fedele dell’odierna realtà culturale italiana. Qual è la tua visione sull’Italia di oggi?
Giorgio Severini è un uomo che legge la sera qualche pagina di Diabolik, che ascolta “forzatamente” della musica classica. Non ha tempo per l’arte o per la cultura, perché la vita va troppo di fretta. Ed è vero. Come fa un padre di famiglia che lavora sei giorni alla settimana, ad andare la domenica in un museo, o la sera a teatro? Se ne sta sul divano a guardare “quelli che il calcio” pensando alla domenica che sta per finire e alla settimana dura che lo aspetta. Bisognerebbe stravolgere il pensiero di tempo e di tempo per il lavoro. Questo sistema ci vuole macchine, senza pensieri, senza idee. Per questo c’è un freno alle idee, perché l’Arte ai potenti allieta, fa divertire, ma fa anche paura. Ma la colpa è anche e soprattutto degli “artisti”, spesso dei tristi “masturbatori”.
Il romanzo, in fondo, è una commedia che sorride continuamente di se stessa quasi non volesse mai prendersi troppo sul serio. Per te il genere commedia è un filtro per osservare meglio o per creare distanze di sicurezza?
Questa distanza, questo come lo hai definito “sorridere di se stessa” permette alla storia e al protagonista di giudicarsi e di capire in quale direzione sta andando il suo viaggio. La commedia per me è la forma più alta, ma la vera commedia. Da Chaplin a Monicelli, dietro ad ogni risata c’era e c’è un pensiero, una nota stonata, che senza l’umorismo che scava e va a fondo, sarebbe solo un triste fatto del quotidiano. Oggi la commedia è un susseguirsi di parolacce, di tette e di culi, e non più un filtro per guardare oltre, ma una benda per non vedere nulla.
Quanto la tua esperienza di uomo di teatro è entrata nella stesura complessiva del romanzo? E cosa invece sei riuscito a tenere fuori?
Sicuramente c’è molto del narrare teatralmente una storia. Molti che hanno letto il libro mi dicono che è piaciuto perché hanno immaginato tutto, hanno visto tutto. Questo per uno scrittore è un grande risultato, perché vuol dire che ha abbattuto quel muro lessicale, e dietro la parola “morta”, il lettore v’ha visto altro.
M’ha definito “uomo di teatro”, beh io non sono che un Cantastorie, che poi utilizzi la penna, il teatro o il cinema quello che voglio andare a raccontare è sempre e solo una STORIA, con tutto ciò che la circonda e ne deriva! E “GRAZIE PER AVER VIAGGIATO CON NOI” credo sia una buona storia.
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