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Intervista a Gianfranco Berardi, autore di Viaggio per amore

Pubblicato il 10 aprile 2011 da Alessandro Izzi


Intervista a Gianfranco Berardi, autore di Viaggio per amore

Abbiamo incontrato Gianfranco Berardi al Teatro Bertolt Brecht di Formia che qui ringraziamo per la disponibilità che ha di fatto reso possibile questa intervista. L’attore ed autore è presente nella città pontina per presentare il suo ultimo spettacolo, Land lover, e il libro, edito da Ubulibri, Viaggio per amore. Proprio da questo prende il via la nostra conversazione.

Cominciamo proprio dal titolo, Viaggio per amore, scelta tua o editoriale?

Il titolo del libro, in realtà, è il sottotitolo di questo spettacolo [Land lover, in scena oggi a Formia N.d.A.], ma in realtà è anche la sintesi di dieci anni di teatro. Franco lo voleva intitolare Il Deficiente o utilizzare qualche formula legata al mondo della deficienza, ma essendo Il Deficiente anche il titolo di un mio spettacolo, la cosa mi sembrava in qualche modo riduttiva anche se è vero che noi lavoriamo sempre sulle deficienze e sulle mancanze. Viaggio per amore mi sembrava, quindi, più adatto. Anche perché in questo lavoro, forse più che in ogni altro spettacolo, tutti gli attori sono entrati nella fase di scrittura portandoci dentro il loro vissuto emotivo e le loro esperienze. Io avevo preparato una specie di canovaccio nel quale erano già delineati tutti i personaggi e la struttura dello spettacolo, il resto è frutto di collaborazione. Mi piaceva poi l’idea che il titolo derivasse dal mio ultimo spettacolo perché l’ultima opera in genere è il sasso lanciato più lontano che vive, però, degli anni di allenamento che hanno preceduto quell’ultimo lancio.

Il titolo però si fa piuttosto significativo se leggiamo insieme Il deficiente e Land lover. In entrambi questi lavori, infatti, il tema dell’amore è coniugato in maniera alquanto complessa e dicotomica. Da una parte c’è infatti l’amore inteso come legame e dipendenza dall’altro, dall’altra c’è il bisogno di libertà che è anche la possibilità di star soli come si legge nella chiusa de Il deficiente. Come mai questa visione così dicotomica?

Per me l’amore è sicuramente il motore che muove il mondo, o che almeno dovrebbe farlo, ed è un grande motore di libertà ed un grandissimo ispiratore di sogni. E questo riguarda tanto l’amore più quotidiano quanto l’amore verso Dio inteso come “altro”, come un “esterno” che ci mette poi anche in comunicazione con tutto quello che c’è dentro di noi. Il non riuscire ad ottenere ciò che vogliamo veramente, un amore autenticamente disinteressato, misura, di fatto, tutti i nostri limiti di esseri umani. Noi siamo sostanzialmente delle cattive persone, egoiste e piene di stereotipi che dovrebbero desiderare solo di migliorarsi. Dal teatro io ho appreso proprio questa piccola grande lezione: l’importanza di assottigliare il divario che c’è tra pensiero ed azione. Nello spazio che c’è tra pensiero ed azione, il vizio, il malcostume si insediano e costruiscono una casa che impedisce alla fisarmonica delle nostre vite di chiudersi nell’identità tra ciò che pensiamo e ciò che facciamo. Tutto ciò che dicono i personaggi di Land Lover sull’amore, sia esso sesso o sentimento religioso dal momento che la piece tratta tutti e due questi aspetti, l’abbiamo preso proprio da questo lasco di spazio che c’è tra pensiero ed azione. È in questa terra di mezzo che abbiamo trovato le battute più maschiliste e razziste che fanno parte di noi e in cui si rispecchiano anche tutti gli italiani. Recitare queste battute è un modo per liberarsi da una “mala azione”, da qualcosa che tu, di fatto, pensi, ma che però “agisci” solo sulla scena. In questo modo ti liberi da un pensiero accettandone l’esistenza e il fatto che sia stato parte di te. E sei anche consapevole che quel pensiero non potrà più diventare azione dal momento che quell’azione l’hai già sperimentata sulla scena e quindi l’hai elaborata. Nei miei lavori è sempre presente questa speranza di migliorarsi e il coraggio necessario per farlo. E diventa facile farlo proprio perché metto in scena un personaggio che non sono io, ma che è parte di me, che è il mio lato oscuro che io posso superare andando oltre. I nostri lavori sembrano generalmente realistici, in realtà a me piace molto lavorare sulla fiaba e sulla magia perché se ci fermassimo alla Realtà non ci resterebbe che prendere atto della realtà triste che ci circonda. Invece noi ci dobbiamo sforzare di migliorare perché solo così possiamo poi migliorare anche il mondo intorno a noi.

Restando su Il Deficiente e Land Lover, quel che colpisce è la geometria degli affetti che lega i vari personaggi messi in scena. In entrambi i lavori c’è una figura centrale intorno alla quale ruotano tutti gli altri. Solo il personaggio centrale, però, proprio in virtù della sua posizione sembra avere la completa consapevolezza della sua condizione e da ciò gli deriva un viepiù di solitudine, ma anche una forse maggiore spinta a migliorarsi…

E’ una bella analisi quella che tu fai e posso dirti che a livello razionale e ragionando a posteriori forse è così. Ma quando scrivo io lavoro ad un livello strettamente intuitivo e mi è difficile ora mettere in parole quello che lavora soprattutto a livello inconscio. Detto questo devo aggiungere che secondo me c’è uno scarto tra Il deficiente e Land Lover. In primo luogo perché dopo Il deficiente ho deciso, ancora una volta a livello intuitivo e quindi non è stata una scelta razionale, di non affrontare più il contesto familiare perché si tratta di una realtà troppo pregna di allusioni, di legami e di sentimenti su cui si può lavorare anche molto bene (e l’hanno fatto De Filippo, Shakesperare, Checov), ma che trovo adesso molto meno interessante. Ora voglio lavorare sugli incontri, sugli incastri affettivi che si vengono a creare quando le persone si incrociano. Persone normali che a volte si conoscono e a volte no e che hanno destini diversi. Personaggi che ad incontrarli potrebbero apparirci del tutto normali e personaggi assolutamente folli. Il farli incastrare e mettere insieme le difficoltà che incontrano le persone normali e le azioni anche un po’ folli delle altre, crea un universo particolare in cui il personaggio più consapevole spesso si trova ad essere solo. Perché poi che cos’è la vita, e con essa il teatro, se non una straordinaria occasione per capire come siamo fatti? Ed in fondo i passi più grandi che muovono alla consapevolezza di noi stessi, li facciamo sempre da soli. Così come ci si trova da soli sia nei dolori che nelle gioie più grandi.

In Land Lover poi la cosa è più complicata perché non c’è riconoscimento. Nel senso che il personaggio centrale, quello che richiama gli altri, poi in realtà non viene riconosciuto da nessuno…

… è anche questa è una cosa allucinante. Ma devo dire che in Land Lover la questione del personaggio centrale è in un certo senso superata. In fin dei conti c’è un grande equilibrio tra i quattro personaggi. Ne Il Deficiente era evidente perché c’era un fratello intorno al quale ruotavano tutti gli altri personaggi. Lì poi c’è un problema dichiarato che fa un po’ da metro della situazione: la cecità di Omar. Così sulla scena succede quello che succede, in fondo, in tutte le famiglie dove c’è uno che ha un problema e tutti stanno intorno a lui. In Land Lover i motori sono vari, ognuno ha la sua motivazione. In effetti, se ci fai caso Land Lover è piuttosto un’opera di doppi: ci sono Il santone e Niki che sono il più consapevole e la più ingenua. E poi ci sono due turisti, tutti e due di Modena (due italiani, quindi) e tutti e due legati alla mamma, uno più consapevole e l’altro meno. Quella più consapevole, Eva Paglia, è l’unica che, proprio in virtù della sua consapevolezza, poi alla fine risolve i suoi problemi. Land Lover è un lavoro su due piani: ci sono due personaggi legati al mondo della religione e due legati al mondo del sesso. Quindi qui più che di geometria si parla di specularità. C’è anche specularità nei due modi di parlare d’amore: la piccolezza dell’uomo quando l’amore lo lega al possesso e che noi abbiamo semplicemente collegato al sesso e poi l’amore spirituale, rivolto a Dio. Io dico Dio per intendere tutto. Perché oggi io penso che la fede sia tutto. Soprattutto nel mondo del teatro. Chi fa teatro non può non avere fede. Perché la fede è l’espressione massima di una poetica teatrale. Almeno della mia. Perché io quando faccio uno spettacolo teatrale, me lo vedo prima. Mi figuro nella mia testa e nelle parole che scrivo una realtà che è ancora lontana da venire, ma che io già vedo. Questa è Fede: credere che qualcosa possa succedere, migliorarla e costruirla prima ancora che accada, vedere oltre, vedere quello che non esiste, ma crederci e darci un valore così forte da investirci tutte le energie finché questa cosa non prende corpo. Ed è a quel punto che non la vedi più. Perché la vedi quando non c’è mentre quando c’è non la vedi più. Questa è la Fede e non è da intendersi solo come spiritualità. La Fede è anche un credere nelle proprie capacità, di credere potentemente in quello che si fa, di avere il coraggio di agire. E questo è un periodo di buio assoluto, di paura. La speranza è diventata ormai una vedova al balcone che chiama il suo figlioletto, Coraggio, dicendogli di tornare prima che faccia buio. E quindi c’è così poca fede. Essere credenti è diventata una cosa da bigotti, una cosa viscida, laida. Fare politica è qualcosa di sporco e allora tutti i valori dell’umanità sono visti come qualcosa di sporco. Ed è vero che sono diventati sporchi, ma non perché i sentimenti degli uomini sono diventati sporchi, ma perché ci sono degli uomini sporchi. Per me non si può perdere il valore della Fede come non si può perdere la centralità della politica.

E, infatti, la protagonista occulta di tutti i drammi presenti in Viaggio per amore è proprio la Paura.

Certo. Però questo è vero sempre solo per tre quarti dei miei spettacoli. Perché per me il finale dei miei spettacoli è sempre di rottura, di svelamento delle maschere. Tutti questi personaggi, costruiti benissimo, che fanno ridere o piangere a seconda della loro natura, ad un certo punto crollano. Al di là di tutto, la maschera cade per dar spazio all’umanità che c’è sotto. E c’è lo smarrimento della maschera caduta che non ha più punti per orientarsi, ma anche la speranza e la fede di riuscire a “costruirci” e a scegliere. Perché è la scelta che fa la differenza. In questo il mio teatro è politico: perché parla delle scelte dell’uomo che fanno la differenza. Harry Potter, un capolavoro assoluto, secondo me, ha uno splendido finale nel secondo libro che recita: “Sono le scelte che dimostrano veramente chi siamo, non le capacità che abbiamo”… cioè: Capolavoro! Io litigo sempre con tutti gli intellettuali e le persone che fanno teatro quando dichiaro il mio amore per Harry Potter. Loro vedono nel libro solo il successo e la popolarità, come se l’essere di successo e, quindi, arrivare a tante persone sia segno di commercialità. Per me è una visione troppo populista il pensare che l’essere popolari sia male. Noi dobbiamo stare con i piedi nel piatto e sporcarci le mani anche con il commerciale. Quello che si rende diversi dagli sporchi predatori del commercio deve essere l’intenzione non il linguaggio. Io sono un giovane autore e non voglio più avere il timore di essere banale, retorico. Io voglio parlare di sogni, di felicità, di amore perché di queste cose è sempre bene parlare perché sono contagiose. Altrimenti a furia di non parlarne, queste cose vanno a finire in una terra di nessuno dove possono essere prese dai predatori, che non sono né di destra né di sinistra, che le prendono e le svuotano di ogni valore.

In effetti uno degli elementi che caratterizzano l’esperienza di Beradi-Casolari è proprio la commistione tra una dimensione popolare, ed una dimensione da teatro di Ricerca. Mentre esperienza analoghe vedono però nella ricerca il fulcro e nella dimensione popolare il condimento dello spettacolo per voi si ha l’impressione che la ricerca è la cornice e il popolare è quello che sta dentro…

Noi stiamo molto attenti all’equilibro tra forma e cuore. La priorità assoluta ce l’ha il cuore. Per me è importante avere un messaggio anche se questo ti rende attaccabile da qualcuno che può obiettare che sono retorico. Non fa niente. Io ho trent’anni e posso ancora credere che il mondo può cambiare nella misura in cui io stesso posso cambiare. Se io posso smettere di rubare gli asciugamani in albergo allora anche il furto può sparire. Certo c’è differenza tra chi ruba asciugamani e chi ruba miliardi, ma non è la quantità, ma la qualità che conta. Io voglio dire cose vecchissime in un linguaggio nuovo. Mi interessa il linguaggio contemporaneo, la cadenza della parlata nuova, ma i contenuti son sempre quelli. In fin dei conti chi ha detto cose più moderne dei greci? Forse qualcuno l’ha fatto, ma io non lo conosco…

Il libro ha un’introduzione, l’ultima, del mai troppo compianto Franco Quadri. Vuoi lasciarci con un suo ricordo?

È difficile. Franco era una delle persone più intelligenti che io abbia mai conosciuto e gli sono stato sempre molto affezionato. E dico questo non perché era il potente Franco Quadri, il critico e l’editore. Ma perché era un uomo capace di leggere le cose guardando anche sotto la superficie. Vedeva gli spettacoli e capiva anche i motori non visibili che avevano dato origine a quegli spettacoli. La cosa che mi piaceva molto di lui era che era “di parte”, diceva la verità ed aveva il coraggio di essere “di parte”. Lui è l’unico che non mi ha mai detto di un mio spettacolo: “io farei così e così”. Anche quando mi rivolgevo a lui nell’incertezza perché vedevo che qualcosa dello spettacolo non funzionava, lui mi dava un solo consiglio: vedrai che lavorandoci troverai la soluzione. Quando è morto Franco noi eravamo a Ravenna. Stavamo facendo Io provo a volare, l’ultimo lavoro nostro che ha visto ed ha recensito. Io e Gabriella eravamo alla stazione, in fila per comprare i biglietti quando mi arriva il messaggio al telefonino che era morto. Io mi ero commosso, avevo cominciato a piangere e Gabriella, che aveva visto tutto, aveva capito la situazione. Proprio in quel momento eravamo arrivati davanti allo sportello della biglietterie e la persona dietro il vetro, con la spietatezza a volte delle persone che non sanno i probeli e le cose di chi hanno davanti, ci ha chiesto: “Cosa posso fare per voi”, al che noi, tra le lacrime abbiamo risposto: “Due biglietti per Rimini” e lui in tutta risposta: “E’ vero che non è una bella città, ma non c’è bisogno di piangere”. Ecco questa situazione di ironia, a suo modo tragicomica, credo sia davvero degna di Franco.


Leggi anche la recensione al libro Viaggio per amore


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