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INTERVISTA A IVAN POLIDORO

Pubblicato il 1 maggio 2006 da Alessia Spagnoli


INTERVISTA A IVAN POLIDORO

Venerdì 28 aprile è uscito nelle sale Basta un Niente, tuo esordio nel lungometraggio. Il film proviene da un corto, Rapina, per il quale nel 2003 avevi ricevuto una menzione come regista ai Nastri d’Argento: quanto è stato difficile “gonfiare” il corto in una sceneggiatura tanto articolata e complessa, con così tanti personaggi?

E’ stato abbastanza facile. Mi piaceva creare una storia dove i tre avessero un loro percorso: e così ho dato questa particolare situazione familiare a Rosario (Gianni Ferreri), Ivo (Gianfelice Imparato) è questo personaggio sognatore e Peppe (Mimmo Esposito) è diventato un piccolo scapestrato di provincia.
La sceneggiatura l’ho scritta in un solo anno. Però avevamo un budget di 500.000 Euro e 25 giorni di lavorazione previsti, per cui abbiamo dovuto fare un po’ di tagli alla sceneggiatura, che era inizialmente molto più articolata.

Hai lavorato precedentemente in teatro e alla televisione. La tv nel film è vista come un oggetto, l’apparecchio televisivo, con una valenza negativa (la notazione della ragazzina incollata al teleschermo), mentre nella sceneggiatura e in particolar modo nella caratterizzazione dei personaggi, si avverte l’influenza, non solo della commedia napoletana, ma anche della lezione di Beckett (specie per il terzetto protagonista). Che cosa hai appreso da quelle esperienze e cosa è confluito nel film?

E’ un grande complimento che mi fai. E’ un autore che adoro e non solo io (se lo chiedi a Gianfelice Imparato ti dice che è il più grande autore teatrale di sempre). Ho fatto diversi Beckett a teatro e ho scritto altri spettacoli con scrittura beckettiana.
E poi anche i tre protagonisti, come tipologia di attori hanno qualcosa di surreale, no? Ma non solo loro, anche Lorenza Indovina ad esempio è una che non è che si dispera troppo per come vanno le cose, alla fine.
Ho tentato di proporre quella scrittura “sospesa”, senza dover calcare la mano o spiegare troppo. Tutto è legato a coincidenze e segni che non mi andava di approfondire: i tre che decidono di fare una rapina, perché casualmente uno sente la notizia della rapina, un altro sa dov’è la gioielleria e quell’altro ancora legge la notizia sul giornale...
E poi, più che una commedia napoletana, è una commedia francese.

Mi pare che non siano solo i personaggi a rimandare a Beckett, ma anche quello che pare il tema portante del film, evidente fin dal titolo: la precarietà di tutto, in particolar modo dei rapporti umani (uomini-donne, genitori-figli...) in cui spesso emergono problemi di comunicazione, sostituiti un qualche modo dal tema della mercificazione delle relazioni (vestiti costosi, anelli carissimi...)

Rapina ha girato quasi tutti i festival ed ha avuto un gran successo. A quel punto ho pensato che povevo fare un film un po’ surreale oppure fare una cosa schioppettante, “napoletana”: ma sarebbe stata una forzatura per me. E così non ho voluto calcare la mano nelle situazioni: nella famiglia di Rosario e Patrizia (Lorenza Indovina) ad esempio si intravede che c’è ancora affetto.
Il fatto è che tutti oggi andiamo di fretta e furia: invece volevo prendermi tempo per trattare questi piccoli mondi, nessuno dei quali vive benissimo.
Tutte queste relazioni in crisi che ci sono nel film fanno sorridere se poi uno pensa a quella coppia di anziani che stanno nella clinica e si trovano così bene: a volte quando uno cerca, non trova il rapporto giusto e magari lo trova così, casualmente. Mi incuriosiva questa cosa qui.

Questa comunicazione interrotta viene ribadita dal montaggio molto frammentato, con la rapida alternanza di diverse scene brevi e inoltre dalla complessità della struttura della sceneggiatura.
L’inizio col posto di blocco e il carro funebre è subito spiazzante e apre il motivo della precarietà e dell’incertezza che sottende tutto il film. E’ un po’ come se giocassi al gatto col topo con lo spettatore?

Sì, beh... lo devi seguire. L’inizio non era previsto in quel modo: ma com’è ora si ottiene una struttura ciclica del film.
C’è un primo momento abbastanza ritmato, con la presentazione dei vari personaggi, poi il ritmo si distende e il secondo tempo, dedicato alla rapina, diventa di nuovo più serrato.
La sceneggiatura iniziale però era molto più elaborata: ci avevo messo tutte le microstorie che davano la completezza al film.

Altro aspetto insolito è l’ambientazione en-plein-air. Sia per i rimandi alla “teatralità” della vicenda, sia per i temi cupi che vi si svolgono (la morta, la malattia, con quella clinica “all’aperto” da cui paradossalmente non si può evadere...) Il tema dell’evasione, della via di fuga da esistenze paralizzate (penso al personaggio sulla sedia a rotelle che alla fine si sblocca) sembra molto importante per te. Il finale mi pare che induca all’ottimismo, no?

Certo: è proprio questo. Altrimenti qualcuno potrebbe pure pensare che incito a fare una rapina in gioielleria per risolvere i problemi! Se vogliamo parlare del plot, del grande tema del film è che in fondo è inutile prendersela sempre per tutte le cose, che basta poco a volte, quasi niente, per stare meglio.
Il finale poi ha anche questa fuga “assurda”, con i tre che dopo la rapina fuggono in Svizzera e chiedono: “Ma questa strada porta davvero a Chiasso?”. E’ una commedia che non vuole né troppo raccontare né spiegare niente.
Per i set, un’altra cosa prevista nella sceneggiatura di partenza era l’ambientazione sulla costiera amalfitana. Poi abbiamo dovuto spostarci a Ostia, in Toscana ecc...

Quanto è stato difficile realizzare Basta un Niente? Il premio ai Nastri d’Argento ti ha aperto delle porte?
Eri intenzionato a tirar fuori un lungometraggio dal tuo corto Rapine?
E infine, quali sono i tuoi progetti futuri?

Inizialmente, due o tre anni fa, ho scritto questa storia per il teatro. Poi ho ricevuto la richiesta da parte di una casa di produzione di scrivere un corto e dato che avevo questo testo l’ho usato per la sceneggiatura. Dopo il successo di Rapina sono stato io a voler scrivere una nuova sceneggiatura per il film.
Prima c’è stato un interessamento di Mediaset, poi della Rai. Ma quello iniziale è stato da parte del produttore Francesco Montini, che è stato molto coraggioso ed è andato avanti nonostante le difficoltà. Avevamo non uno, ma nove attori di prima fascia. Non una, ma tremila storie che si intersecavano e un finale con un po’ di azione: e quella la devi girare. La fantasia aiuta fino a un certo punto lì...
Per il futuro ho già un’altra sceneggiatura pronta. C’è sempre Francesco Montini, che l’ha letta, gli piace molto e vuole produrla: stavolta è una storia più semplice, molto più lineare, con quattro personaggi principali.

Sembra quasi che tu sia più interessato alla scrittura che alla regia, o sbaglio?

La scrittura mi interessa molto, anche per il teatro: ma lì la nuova drammaturgia è un campo davvero molto difficile. Invece vedo che al cinema ci sono più possibilità.
Mi dicevano che la commedia è difficile, e io non ci credevo: ma lo è. Specie se vuoi fare un tipo di commedia meno tradizionale, più “sfumata”.


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