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Intervista a Riccardo D’Anna, autore di La figura di cera

Pubblicato il 23 marzo 2011 da Alessandro Izzi


Intervista a Riccardo D'Anna, autore di La figura di cera

Uno degli elementi che creano maggior distacco tra Il morso sul collo e La figura di cera sta nella precisa svolta verso il meraviglioso del secondo. Per Raven tutto resta ancorato nella categoria todoroviana del fantastico secondo la quale gli eventi sono interpretabili sia in chiave naturale (il vampirismo altro non è che un’aberrazione psicologica e, quindi, una patologia trattabile) sia in chiave soprannaturale (i vampiri esistono davvero). Sicché il finale mantiene una sua carica perturbante dal momento che le vittime dell’infezione vampirica vengono seppellite, ma, tanto per sicurezza, con un paletto confitto nel cuore. La figura di cera, viceversa riporta tutto al soprannaturale. Come mai questo cambiamento di registro rispetto al romanzo di origine?

Non considero Il morso sul collo un testo esemplare della letteratura vampirica novecentesca, i cui risultati migliori sono forse ancora da intravedere, a mio giudizio, in Io sono leggenda di Matheson e nelle Notti di Salem di King. Il libro di Raven è quantomeno un horror sui generis, in cui cioè la dimensione orrorifica è una chiave che serve per entrare in luoghi diversi da quelli che il lettore si aspetterebbe: ci sono analogie, naturalmente, con La figura di cera, avvalorate dai personaggi che trasmigrano da un testo all’altro e da un avvio lento e dialogato che ne riprende le movenze iniziali, ma quello che mi interessava era scrivere un romanzo autonomo, liberamente tratto e sviluppato dal precedente, non un semplice sequel. Nel far questo ho affrontato il testo dimenticando il precedente e lasciando che affiorasse il mio punto di vista: più ci sforziamo di ricondurre tutto al controllo della ragione, più vi sono una serie di elementi che ci sfuggono. Il pensiero non può viaggiare nel tempo senza attraversare la madre di tutte le paure, che è la morte: in fondo la nostra civiltà ha prodotto e continua a produrre fantasmi che nessuno sarebbe stato in grado di prevedere…

A fronte del palesarsi dell’aspetto magico e soprannaturale più scoperto di La figura di cera, si avvera anche un sostanziale scivolamento della struttura del romanzo alla logica del giallo razionalista. Anzi si ha l’impressione che quanto più la componente razionale prende corpo tanto più si gonfia anche la dimensione fantastica del racconto. Era una cosa progettata nel romanzo o una risposta a bisogni personali?

Le potrei rispondere con un aforisma: la fantasia assembla tratti dispersi per costruire un oggetto nuovo, mentre l’immaginazione si stabilisce al centro di un oggetto reale. Quando si sceglie di scrivere un romanzo che è un misto di storia e d’invenzione occorre saper bilanciare queste due componenti, quella fantastica e quella, se mi passa il termine dannunziano, “imaginifica”.

Tutto il romanzo è un complesso braccio di ferro tra pulsioni diverse. Da una parte ci sono le convenzioni del genere, dall’altra l’emergere di momenti del tutto incongrui al genere stesso, vere e proprie fughe dai canoni, momenti di incanto come la scena del bambino che guarda la neve o quella del ritorno a casa del padre di Tyrell che assumono una loro autonomia anche a dispetto della stessa voce narrante che resta sempre quella di Anthony. Come si è trovato a gestire questi momenti diversi?

Nel bene o nel male, riusciti o meno che appaiano agli occhi del lettore, cerco di scrivere libri di qualità. Sono convinto che la produzione editoriale di largo consumo, inverata dai numeri delle classifiche e dalle percentuali di vendita, appaia sempre più appiattita su facili escamotages. Assistiamo, in breve, a un livellamento verso il basso. D’altro canto una letteratura di qualità potrà sopravvivere solo se, e in quanto, sarà in grado di ibridare, mescolare i diversi linguaggi secondo una marca stilistica forte (non per questo necessariamente sperimentale né a tutti i costi avanguardistica…) che restituisca alla parola scritta originalità, unicità, spessore.

L’oblio, forse, è il vero grande vampiro di La figura di cera. Quello che colpisce le vittime del vampiro “convincendole” al suicidio come quello che attanaglia il padre di Tyrell. “Il passato in fondo non esiste” è l’ultima battuta detta a fine romanzo. A mezza voce ed a se stesso...

Non a caso è anche la battuta che apre il romanzo. Lei ha centrato perfettamente il punto: il vero mostro contro cui possiamo opporre solo le nostre armi spuntate è l’Alzheimer, l’indeterminato, il vuoto che si cela nelle nostre esistenze. Vivere è perdere terreno… Vede, i giorni della nostra vita sono come tesori affondati, che si disfano sulla sabbia, mangiati dalla salsedine. Non è importante l’obiettivo che si raggiunge, ma il “come”, la strada che si è fatta, i miraggi, i fantasmi, la luce e le ombre che ti hanno accompagnato.

“Un angelo o un demone della notte soffia su l’incendio del mio occhio perduto” è l’epigrafe che apre il romanzo. Verso la fine come un’eco ritorna in parole questa volta sue “Non siamo che ciechi, stanchi di ricostruire al tatto il senso degli oggetti, solo dalla loro forma.” L’intero romanzo sembra incorniciato dal compianto per un senso perduto. Delle cose e di chi le esperisce. E l’avventura, anche se dannatamente divertente per personaggi come per lettori, sta nel mezzo come piccola cosa. Un bel rischio per un romanzo di genere non trova?

Chi scrive è sempre miope e presbite a un tempo. Quando ho terminato La figura di cera ho capito subito che avevo scritto qualcosa che era molto meno di un horror, sperando tuttavia, e al tempo stesso, che potesse essere qualcosa di più. Se dovessi cercare una frase a effetto citerei Paul Morand quando, accusato di presentare un’immagine cinica della realtà, rispose: “sono soltanto uno scrittore: come il Danubio, trasporto indifferentemente cadaveri e fiori…”

Al di là di tutto La figura di cera ha, rispetto a Il morso sul collo, un elemento nuovo: l’ironia. O perlomeno le proporzioni di ironia sono diverse nei due romanzi. Fino a che punto scrivere può essere un gioco mortalmente serio?

La domanda verte su due aspetti. L’ironia della Figura di cera deriva in massima parte dal gioco di allusioni e citazioni incrociate che potrebbero far rientrare il romanzo nel novero del pastiche postmoderno. Se dovessi raccogliere come su un francobollo, in una sola immagine, il senso di questo gioco di specchi, sceglierei probabilmente il brano in cui Anthony, la voce narrante, sostiene di aver incontrato Simon Raven nella Londra di allora. Nell’immaginario dei pubblicitari e nella vulgata dei premi letterari e della società dell’apparire, scrivere è vista come un’attività rilassante, gratificante, persino divertente a tratti. Non c’è nulla di più falso e di lontano dal vero. “So quello che volevo ottenere e non tutto è sulla pagina. Questo è il tormento dello scrittore”, confessa Stephen King. Si tratta, vorrei aggiungere, di un tormento che ti accompagna notte e giorno, e non ti lascia mai.


Leggi anche la recensione al libro La figura di cera


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