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L’immagine-Cristo

Pubblicato il 20 giugno 2013 da Alessandro Izzi


L'immagine-Cristo

L’immagine cinematografica non è mai stata la cosa.
Sin dagli esordi del cinema dei Lumiere, l’azione del cineasta è sempre stata quella di raccogliere, prima di tutto, l’illusione e la sua persistenza negli occhi e nel cuore degli spettatori.
Per questo il cinema è un miracolo forgiato nell’assenza. L’illusione del movimento, infatti (e in pochi lo sottolineano), non sta nella luce, ma nel buio improvviso che separa la scomparsa di un fotogramma dall’apparizione del successivo. La magia della proiezione sta in questa proiezione a raffica di immagini fisse che devono morire come foto per risorgere, paradossalmente, come movimento. Per arrivare a tanto occorre un artificio, un elemento che trasformi il moto continuo della pellicola tra gli ingranaggi del proiettore nel moto discontinuo del fotogramma che si ferma per un ventiquattresimo di secondo davanti alla luce della lampada. Questo artificio, manco a farlo a posta, è una croce: la Croce di Malta.

Sono strane le affinità che legano la proiezione cinematografica alla salita al Calvario del Cristo. Ma, come nota Giammario Di Risio nel suo bel saggio L’immagine-Cristo (edito da Le Mani), il cinema ha sempre sentito nei Vangeli e nella storia del falegname di Gerusalemme una serie di strane affinità.

Il cinema è miracolo e stupore. È magia da baraccone e strano incanto. È scienza che diventa magia agli occhi di chi non capisce il meccanismo. Ma è anche assenza e persistenza. Mancanza e nostalgia. Dolore e passione.
Il cinema si rivolge alle masse e diventa fenomeno di costume di portata planetaria. Fonda miti che si attaccano sui muri come poster in quegli spazi che un tempo si lasciavano alle immagini sacre. E ha una sua sacralità: il rito della proiezione (un tempo collettiva) e un tempio (oggi quasi desueto) che è quello della sala.
Giocoforza che sin dai suoi esordi, il cinema si dedicasse al Cristo e lo raccontasse. Lo hanno messo in immagine i Lumiere e poi gli americani. È stato nel cinema dei vedutisti e poi negli amanti del kolossal.
Figura da mettere in scena perché cosa c’è di meglio dell’immagine cinematografica che muore e risorge ad ogni proiezione (o nel buio tra un fotogramma e l’altro) per cantare di un Dio che si fa uomo e muore per risorgere?
Gli ingredienti ci sono tutti: dramma e passione, dolore e ansia e l’immarcescibile lieto fine. Ai primordi del cinema la tentazione era, forse, ancora più forte: storia universalmente nota, possibilità di immediata empatia, un racconto che avanza per quadri.

Di questi momenti pioneristici Di Risio racconta relativamente poco perché altro è il suo raggio di indagine. Eppure il racconto franto del cinema che ha messo in immagine il Cristo, è vivido e solletica la curiosità oltre a risvegliare i ricordi comuni di una televisione che fino a poco tempo fa programmava La tunica ad ogni Pasqua.
Poi il saggista abbandona il lido storico e si sceglie, nel mare magnum dei film con Cristo protagonista, quattro titoli esemplari. Quattro, come i Vangeli canonici. O, più modestamente, come i punti cardinali di una bussola necessaria a chi cerca la strada per il Golgotha.
Sono quattro momenti diversi dal modello hollywoodiano del kolossal senza pretese e con tanta fame di miracoli. Sono espressioni di tempi diversi sullo stesso canovaccio.

Il primo è Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, strano film di un laico che il sacro se lo scava nel dolore degli umili e nella loro morte, questa volta senza resurrezione. Film potente, la cui portata autobiografica resta un po’ fuori dall’acuta trattazione di Di Risio che, nel frattempo, ha mano felice nel descriverne la vocazione pittorica, la strana fedeltà al testo di partenza e la vocazione tutta laica nello scoprire il Cristo prima di tutto un rivoluzionario ante litteram che deflagra nel portentoso finale che il saggista avvicina al Vangelo di Giovanni anche se a noi sembra più vicino ad uno spirito jacoponiano.

Inaspettata, ma felicissima, la scelta del Jesus Christ Superstar di Norman Jewison che utilizza il Cristo come detonatore per una bomba che deve esplodere soprattutto nella contemporaneità.
Alleggerito dalla dimensione di musical che toglie al personaggio profondità per calarlo nel totale della coreografia, il falegname di Jewison (e prima di lui di Webber e Rice) è, secondo il Di Risio, assai meno pregnante di Giuda, un personaggio, quest’ultimo, capace di entrare e uscire dall’inquadratura per farsi ponte col presente riportando le immutabili parabole del nazareno nel campo dei figli dei fiori e del Vietnam.

Diverso il caso di L’ultima tentazione di Cristo, terzo vangelo cinematografico analizzato dall’autore, che esalta la componente divina del Redentore attraverso l’enfatizzazione della controparte umana. A nostro parere è su Scorsese che l’analisi del saggista tocca il suo punto più alto, anche perché la passione con cui il regista racconta la contrapposizione tra spirito e carne gli offre un assist irrinunciabile.

Conclude il discorso un’analisi su La passione di Mel Gibson e qui il saggista coglie bene il senso tutto medioevale della scelta del regista di raggiungere lo spirito attraverso la mortificazione assoluta del corpo per cui rimandiamo a quanto scrivemmo all’uscita del film.

La cosa che senz’altro colpisce nella lettura del libro è la capacità di Di Risio di affrontare dei testi filmici salutati all’uscita da enormi polemiche senza affondare nel fango che questi testi avevano smosso. Il discorso è anzi supportato da una notevole lucidità di pensiero che aiuta il rigore analitico a non soffocare sotto il sole falso delle idee preconcette. Il saggio che ne risulta è notevole, denso e stratificato. Uno strumento di studio importante che speriamo entri presto nel dibattito culturale italiano e non solo.


Autore: Giammario Di Risio
Titolo: L’immagine-Cristo
Editore: Le Mani
Dati: 200 pp, brossura. Illustrazioni all’interno b/n e colore
Anno: 2013
Prezzo: 16,00 €
Isbn: 978-88-8012-644-7
webinfo: Scheda libro sul sito dell’Editore


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