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L’orrore del cambiamento: Dawson’s creek

Pubblicato il 4 febbraio 2007 da Alessandro Izzi


L'orrore del cambiamento: Dawson's creek

Esiste una legge cui ogni serial TV è sottoposto. Una legge non scritta, ma rispettata tassativamente da tutti: determinare delle situazioni drammaturgiche costantemente ad un passo dal tracollo, sempre sul punto di esplodere, ma che ricadono sempre su se stesse, come nulla sia successo.

Come se si fosse alla costante ricerca di un evento catartico, da molti atteso, da altri temuto, che non arriva mai.

La tensione del cambiamento che vorrebbe lanciare i personaggi e le situazioni verso l’esterno (come in una spinta centripeta) si sgonfia sempre nel silenzio di una routine circolare e centrifuga. Passando dal "sembra possa accadere di tutto" al "niente è alla fine accaduto, tutto resta come prima" senza neanche quella consapevolezza che qualcosa poteva realmente accadere.

E non si pensi a Checov — in cui il contrasto tra eventualità e Realtà si risolve in una stasi tragica in cui nulla accade mentre tutto è accaduto — perché nel caso del serial TV è l’aspettativa del pubblico a farla da padrone. Che tutto possa accadere, infatti, è un ingrediente essenziale a tenere desta l’aspettativa del pubblico, mentre che nulla accada è fondamentale al tentativo di non disattenderne gusti e desideri. Se una cosa funziona è bene che continui a restare così com’è, insomma, ma bisogna che si abbia sempre l’impressione che quella cosa sia sempre sul punto di cambiare perché il pubblico non vi si disaffezioni. In altre parole: tenere, sì, avvinto il proprio pubblico, ma su di una poltrona, mentre è in pantofole.

In Dawson’s creek questo meccanismo è continuamente contraddetto. Mentre negli altri serial, infatti, il cambiamento è (seppur temuto) costantemente invocato, nell’opera ideata da Williamson è costante fonte di angoscia che necessita di una continua rimozione. Perché quel cambiamento è, in ultima analisi, la crescita. Crescita intesa, però, come strappo doloroso.

Gli eventi del serial sono, in questo senso, radicalmente diversi da quelli di una Soap come Beautiful, ad esempio, perché è sostanzialmente diverso il modo in cui i vari personaggi vi si rapportano.

Ridge, Brook, Thorne sanno esattamente cosa vogliono e si illudono di poter cavalcare gli eventi entrando attivamente nel loro svolgersi. Dawson, Joey ecc., al contrario, vivono l’evento in uno stato di totale confusione, incapaci a comprenderlo perché sostanzialmente incapaci a comprendere se stessi. Come vedessero accadere le cose incapaci di rendersi conto fino in fondo della loro responsabilità nei confronti delle cose stesse.

In questo senso abbiamo a che fare con un vero e proprio serial horror, dove l’orrore è tutto mentale e dove il mostro compare sotto la rassicurante copertura di una realtà da film di Frank Capra.

I genitori del protagonista, apparente realizzazione del sogno americano, nascondono all’interno del rapporto tutto un mondo sconosciuto di egoismi e frustrazioni. Il rapporto tra Pacey e Tamara colpisce per quanto vi è di assolutamente irrazionale in esso, ed è con stupore che vi ritroviamo, sotto l’illegalità della storia un lato tenero ed inerme sempre sul punto di essere spazzato via (e vederci solo l’immoralità di un rapporto professoressa/alunno sarebbe immorale).

Non bisogna aspettare la puntata dedicata ai film horror (una tra le più belle peraltro) per rendersi conto di quanto horror scorra tra le immagini di questo piccolo cult televisivo.

E se i personaggi si aggrappano al desiderio che nulla cambi, che tutto resti così com’è adesso, lo spettatore può rendersi conto che, alla fine, è in questo desiderio innaturale (quanto comprensibile) il vero orrore e che, nonostante tutti gli sforzi, ad ogni minuto, qualcosa è perduto per sempre.


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