X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Libri - Apichatpong Weerasethakul

Pubblicato il 13 marzo 2010 da Alessandro Izzi


Libri - Apichatpong Weerasethakul

La magia delle immagini di Apichatpong Weerasethakul ha l’evanescenza di un volo di lucciole: si confonde nel buio della notte non appena sente avvicinarsi il pesante passo del ragionamento critico. James Quandt è consapevole di questa incontrovertibile verità e, nel dare alle stampe questa che è la prima pubblicazione in lingua inglese sul regista Thai, ci (e si) preavverte della necessità inutile dello sforzo di afferrare con le parole la poesia delle immagini.
Tutto quello che il critico può fare, nel tentativo di definire l’arte di Apichatpong, sta tutto nel paragone. La ricerca dei parallelismi, sterile quando non porta ad un dialogo reale con tradizioni culturali diverse, sembra essere, per il critico che ancora muove i primi passi nell’universo poetico del regista, l’unico modo per aggredire il cuore pulsante della sua poesia e per ricondurlo nel seno di qualcosa di conosciuto, di compreso, di già studiato. Si cerca, così, di capire lo sconosciuto attraverso le categorie del conosciuto, di trarre delle conclusioni su qualcosa che ancora muove i primi passi ed ha la delicatezza di un adolescente che si affaccia al mondo con la voglia di farsi conoscere ed amare, ma con la sfrontatezza di chi vuol comunque rimanere se stesso.
Ecco così che la categoria dell’Exquisite Corpus (pratica amata dai surrealisti con l’idea di una storia collettiva in cui ognuno inserisce un verso) giunge ad aiutarci a comprendere sia il senso di un’operazione come Mysterious Object at Noon (folgorante esordio del regista) che a capire come mai nuclei tematici, personaggi, battute o singole sequenze tornino di film in film come se l’intera filmografia del regista (ivi comprese le video installazioni realizzate per le più svariate Biennali) fosse un immenso Corpus che varia le stesse situazioni.

Ed ecco poi che la squisita struttura diadica di Syndromes and a Century, con la prima parte immersa nelle luci elettriche di una città occidentalizzata entro cui si rincorrono e si amano due uomini e la seconda soffocata dal buio della giungla con un cacciatore alla ricerca della sua preda, aiuta a ben comprendere quanto il dualismo (città/campagna, giorno/notte, amore/odio) sia fondativo all’interno dell’universo filmico dell’autore.
Ed ecco, infine, i paralleli all’arte di Lynch (per la struttura criptica e il gioco di rifrazioni), di Warhol (per il senso pop e per le tematiche omosessuali), di Kiarostami (per l’estrema poesia con cui viene filmata la Natura) e di Brecht (per il senso straniante di scelte spiazzanti come l’inserimento della sequenza titoli a metà film) divengono tasselli importanti di un ritratto d’autore. Paralleli che aiutano a decriptare un poco il senso magnifico delle inquadrature di Apichatpong, ma che ci fanno sentire il suo cinema ancor più sfuggente ed arcano.
Forse perché, come nota bene Kong Rithdee nel suo breve contributo (Cinema of Reincarnations), molto del cinema di Apichatpong è culturalmente intraducibile perché è così squisitamente Thai che diventa quasi del tutto incomprensibile per chi appartiene ad un’altra cultura. La qual considerazione porta ad un paradosso, visto che le pellicole del regista circolano molto poco nel suo paese e sono per lo più incomprese dall’élite borghese di città tutta orientata verso una globalizzazione di stampo americano. In verità, però, ci informa Benedict Anderson nel suo The Strange Story of a Strange Beast, il cinema di Apichatpong è antropologicamente legato alle radici della cultura Thai, una cultura cresciuta all’ombra della giungla e dove il rapporto con la terra è animico e reale, profondo. E anche il riferimento all’omosessualità, giudicata dallo stesso ministero della cultura come una concessione ai gusti un po’ bizzarri del pubblico occidentale presso cui il regista riscuote non poca ammirazione, deriva dalla visione di un mondo, come quello contadino, in cui la sessualità viene vissuta con molti meno problemi e qualche tenerezza in più.

Il bel libro curato da James Quandt, pur consapevole dei limiti che derivano dal doversi occupare di un regista che ha sulle spalle ancora solo quattro titoli (escluse ovviamente le installazioni cui è dedicato un interessante capitolo a firma di Karen Newman) lascia spesso la parola all’autore sia attraverso le interviste (di cui una realizzata appositamente per il volume) che attraverso alcuni suoi pregnanti scritti. Attraverso le parole del regista viene fuori il ritratto di un cinema che non è mero rifugio del privato, ma che cerca sempre un diretto confronto anche politico col mondo che lo circonda. Un cinema curioso nei confronti della dimensione religiosa buddhista, ma molto più attento a tentare di sondare il mistero dell’esistenza in senso non confessionale. Ma soprattutto viene fuori la radiografia di un cinema di memorie, profondamente autobiografico, ma mai meramente aneddotico. Apichatpong sa che, per quanto si possa viaggiare lontani, alla fine si finisce sempre per raccontare solo se stessi e lo fa con l’ironia di chi è consapevole della propria finitezza e della capricciosità resnaisiana della propria stessa memoria.
Perché il cinema, ci dice nel suo saggio più bello, non è altro che uno spettacolo di fantasmi che si offre sempre e solo ad un pubblico di altri fantasmi.


Autore: James Quandt (a cura di)
Titolo: Apichatpong Weerasethakul
Editore: Filmmuseum Synema Publikationen
Lingua: Inglese
Dati: 256 pp, brossura con alette grandi, 245 ill. a colori
Anno: 2009
Prezzo: 20,00 €
webinfo: Scheda libro (in tedesco) sul sito Filmmuseum Synema Publikationen


Enregistrer au format PDF