Libri - Conversazioni con Wilder, religioso della qualità

Wilder ha una testa piena di lame di rasoio [William Holden]
Si potrebbe definire un genere letterario a sé stante, quello dei libri-intervista a registi scritti e curati da colleghi directors più giovani. Su tutti l’opus magnum di Truffaut al maestro Hitchcock, ma anche il prezioso contributo di Peter Bogdanovich con le interviste a Welles. Libri che hanno il raro privilegio di far accendere lampadine di interesse anche nei cinefili più spenti, una sorta di backstage da assaporare attraverso la lentezza della lettura. A due anni dalla morte di Billy Wilder, possiamo spalancare le porte dello stupore leggendo il resoconto di un’amicizia tra Cameron Crowe, allora appena uscito dal successo di Jerry Maguire e il Maestro viennese, che in quasi tre anni di chiacchierate, confusionarie nello stile ma per questo più fresche e più dirette, permettono al consumato giornalista autore di Elisabetown, di accedere a numerosi succulenti aneddoti che arricchiscono di più di un quid ogni capolavoro di Wilder.
Partendo dagli immancabili inizi, quando, ancora giornalista in Austria fu cacciato da Sigmund Freud in persona che non aveva intenzione di farsi intervistare, fino al pomeriggio passato a parlare di stupidaggini con John F. Kennedy, il tutto condito dalle lunghissime collaborazioni con i compagni di tanti capolavori, da I. Al. Diamond a Charles Brackett e i ricordi di una Hollywood scomparsa, in cui una diva come Marlene Dietrich si preoccupava sul set della salute di tutti, attrezzisti compresi, correndo scalza sotto la pioggia per portare un’aspirina ad un elettricista, tanto da essere stata soprannominata “Madre Teresa gambelunghe”.
La scelta di passare dietro la macchina da presa, dettata dal fatto di non poter neppure assistere sul set alla realizzazione dei film che scriveva e che immancabilmente al cinema scopriva essere stati tristemente manomessi; l’assoluto e invariato rispetto per il Lubitsch’s touch, quasi tramutato in venerazione, tanto da tenere affisso nello studio un cartello “Come l’avrebbe fatto Lubitsch?”. I durissimi rapporti sul set di Sabrina con il mito Bogey, che Wilder fin da subito non trovava adatto alla parte e per cui il direttore della fotografia impazziva per riprenderlo in modo da nascondere i continui sputi dell’attore durante la recitazione; le sfuriate per i mastodontici ritardi sul set della Monroe, che riusciva a sbagliare 50 ciak per dire “Dov’è il borboun”, ma poi si rifaceva con un Buona la prima di tre minuti filati nella scena della spiaggia con Curtis-capo della Shell. Molto spesso insoddisfatto del proprio lavoro, in particolare di Baciami stupido, che riteneva essere più adatto se girato da un regista italiano, Wilder critica anche il Lemmon non credibile come flic francese in Irma la Dolce, minimizza nella formula del Teatro-al-cinema il Prurito del Settimo anno, lamentandosi dell’interpretazione di Tom Ewell, per poi ricordare che lo “sbuffo dalla grata della metropolitana non potrà mai essere fresco, ma il viso della Monroe fa dimenticare anche la logica”. Un regista che ha sempre rinunciato a priori a effetti stilistici ricercati, tranne che, per sua stessa ammissione, nella scena finale de L’asso nella manica, in cui fece scavare una buca per posizionarvi la macchina da presa e catturare dal basso l’istante della morte del cinico giornalista (Kirk Douglas) in un primo piano difficile da dimenticare. E poi il grande cruccio di non aver potuto utilizzare Cary Grant, da lui considerato il più grande attore di commedie, ma anche il grande amore per i suoi attori, dall’”attore della strada” Lemmon, al grande gigione Charles Laughton, alla grazia priva di malizia di Audrey Hepburn, di cui Wilder ricorda la non eccezionale bravura recitativa, passando per James Cagney e il William Holden di Stalag 17, film a cui Wilder si dimostra molto legato. Ma anche un libro ricco di consigli sulla sceneggiatura, definita l’”unica fase non divertente della realizzazione di un film” e qui Wilder riesce anche, in un tripudio di modestia e sincerità, a non attribuirsi la battuta più famosa del suo cinema, indicando nel collega di tanti capolavori Izzy Diamond il creatore del “Nobody’s perfect”. Per poi rivelare di aver avuto più che una semplice idea di trasporre Il giovane Holden, cui sarebbe stato assai fedele, ma pur avendolo rapito, “sapevo quanto sarebbe stato difficile lavorare su un libro con una visione così compiuta e personale del mondo”. Uno sguardo lucido e sempre ironico sul suo passato, che Wilder ricorda con più di un pizzico di ironica malignità sottolineando l’assoluta mancanza di cultura dei produttori o il fatto che George Raft, analfabeta, dovesse pagare una persona per leggergli il copione che lo avrebbe trasformato nel gangster Ghette. Un gran bel libro, ricco di fotografie dai backstage dei film, che si chiude con una semplice, disarmante summa del maestro, che letta di questi tempi dovrebbe per lo meno far allargare le braccia: “Il mio imperativo è non annoiare il pubblico e ho sempre avuto un’unica religione, la qualità”. Una religione, quella wilderiana, cui è difficile non essere per sempre devoti.
[Carlo Dutto]
Conversazioni con Billy Wilder di Cameron Crowe
Adelphi ed., Milano 2002
376 pp., 40 Euro
Corredato da 670 fotografie in b/n.
Prima edizione Usa 1999
