Libri - Danza macabra

Delle immagini baluginano appena nella nostra memoria storica mentre leggiamo Danza macabra di Dan Simmons. Sono foto consunte di persone che guardano in camera, lo sguardo vuoto, reso vitreo da una sofferenza al di là della nostra immaginazione. Sono figure immerse nel silenzio, che si offrono allo sguardo restando dietro l’elettrificata barriera di un filo spinato appena più a fuoco di quel volto che guarda oltre consapevole dell’inutilità di una fuga. Sono i gemellini che si mettono in marcia in mezzo al fango, quei bambini sui quali Mengele giocava utilizzando i bisturi presi a prestito dal Dottor Moreau. Sono i documenti dai campi di concentramento nazisti: cartoline dall’inferno destinate alla propaganda, ma presto messe in un cassetto perché troppo mostruose per riuscire a dimostrare (questa era l’intenzione dei loro autori) l’inferiorità della razza ebrea e la pericolosità degli zingari.
Conviviamo con quelle immagini da anni e ancora ci colpiscono, ancora toccano una corda nel profondo. Epperò l’orrore più grande, nella nostra reazione a tanto abominio, non sta tanto nell’intollerabile pensiero che persone siano riuscite davvero ad ideare e costruire quei campi. No! L’orrore sta piuttosto nel vedere quei corpi emaciati e scavati dalla fame e non riuscire a scorgervi se non un ricordo d’umanità. Ciò che ci spaventa è che una persona possa essere ridotta a tanto, che possa scivolare sino a raggiungere la condizione di un fantasma vivente. L’orrore sta tutto nel nostro considerare se questo abbia mai potuto essere un uomo.
È probabile che queste immagini fossero presenti nella mente di Romero quando raccontava le sue storie sui morti viventi, soprattutto quando queste parlavano la lingua del bianco e nero. Certo la memoria storica ci ricorda che dietro l’apologia del regista americano c’era soprattutto il ricordo della guerra in Vietnam. Purtuttavia i suoi morti caracollanti, a stento in grado di restare in piedi e guidati solo da un istinto di fame e da una vaga reminescenza della condizione umana si portano sul braccio il tatuaggio di un numero che parla di altri tempi e di altri orrori.
I campi di concentramento sono davvero i protagonisti occulti (ma poi neanche tanto) di Danza macabra. Sono loro la genesi di un orrore tutto novecentesco col quale ancora conviviamo perché al loro interno, per la prima volta nella storia, l’uomo ha perso la sua connotazione individuale ed è stato fatto massa. Nell’orrore dei campi di concentramento, nel sangue impastato al fango c’è tutta la logica della società delle macchine, c’è tutto il trionfo del neocapitalismo, c’è l’abominio del consumismo più sfrenato. Un meccanismo violento che si ciba di violenza e che si perpetua nel nome della violenza. Sul ponte di comando pochi ricchi o arricchiti, in basso il resto del mondo beato nella sua ignoranza dei meccanismi che muovono le fila della sua stessa esistenza. Pochi vampiri che giocano come Mengele col destino di persone ridotte a giocattoli. Dan Simmons parte da questo principio ed immagina (ma non è il primo) l’esistenza dei vampiri mentali: mostri capaci di controllare la mente e le azioni delle persone. Abomini della natura (l’apparato scientifico che regge il romanzo ce li figura non come superuomini, ma come capricci evoluzionistici che ci riportano indietro all’istintualità dei rettili) che si nutrono delle nostre paure e della nostra morte. Uccidendoci ringiovaniscono.
Se Dan Simmons non è stato il primo a raccontare le gesta di vampiri mentali, è però l’autore che con più consapevolezza unisce in un fil rouge le loro sorti a quelle degli ebrei nei campi di concentramento. Il romanzo si apre, infatti, a Chelmno ed elegge a protagonista ideale un ebreo scampato persino all’orrore di Sobibor. Il suo destino si prolunga sino agli anni ’80 creando un link invisibile e forte che lega la seconda guerra mondiale alla violenza greve del decennio reaganiano. Figli di orrori diversi eppure tanto simili, i due periodi storici si riflettono l’uno nell’altro e si riconoscono. La differenza che separa gli ebrei in marcia verso i forni e gli americani che affollano un cinema che proietta un film d’azione e sparatorie è di grado più che di sostanza. Se si gratta sotto la superficie dell’apparente felicità della realtà contemporanea si scopre, infatti, che vige sempre la stessa regola dell’homo homini lupo. Del resto ci sono ancora i ghetti neri, c’è ancora una sorta di silenzioso apartheid che regola le dinamiche di un razzismo strisciante e mai sopito. E non è un caso che uniti contro i mostri in una lotta impari siano un ebreo sopravvissuto ai campi ed una donna di colore: esponenti di una realtà che vorremmo, nella nostra cattiva coscienza borghese, poter rimuovere e che chiedono giustizia in un mondo che non sa neanche chiamarli per nome.
Poi, nel leggere questo romanzo, implacabile nella sua progressione narrativa, comincia a sorprenderci una considerazione che scardina gradualmente la nostra pacifica posizione di lettori seduti in poltrona. Forse quella fame di violenza dei vampiri, quel loro voler vedere la nostra morte, non è tanto diversa dalla nostra condizione di comuni spettatori. Nel nostro andare al cinema in cerca di piaceri forti, nel nostro accendere i televisori a caccia di reality, nel nostro soffermare l’attenzione sul luogo di un incidente in cerca della vittima, noi siamo esattamente come loro: dipendenti da una violenza che è diventata, col tempo, l’habitat nel quale viviamo. È per questo che due vampiri mentali, nel libro, esercitano la professione di produttori cinematografici (guarda caso di film ad alto tasso di sesso e sangue). Ma, soprattutto, è per questo che al più temibile dei mostri, l’anziana Melanie, sia concesso un privilegio che neanche Dracula, il più famoso tra i vampiri, aveva avuto: la più alta forma di immedesimazione col lettore, la possibilità di raccontare la storia dal suo punto di vista, in prima persona.
Autore: Dan Simmons
Titolo: Danza macabra
Editore: Gargoyle
Dati: 945 pp, copertina rigida.
Anno: 2009
Prezzo: 19,50 Euro
webinfo: Sito editore
