Libri- DARE FORMA ALLE EMOZIONI
"Il passato è un paese straniero". Con questa frase si apre Messagero d’amore, uno dei film più struggenti e dolorosi del grande Joseph Losey e, sostituendo la parola passato con la parola montaggio si potrebbe definire il senso di progressione con cui viene sviluppato il discorso del bel libro di Roberto Perpignani rispetto all’approccio nei confronti di quello che è propabilmente l’aspetto più specifico e determinante del linguaggio cinematografico. Come nel film di Losey il rapporto con ciò che inzialmente appare sconosciuto o, meglio, conosciuto solo superficialmente e in maniera distante, asettica, come un fatto puramente tecnico, acquista un valore più profondo e argomenta in pieno il significato del titolo che lo stesso Perpignani dà alla sua raccolta di riflessioni-ricordi-pensieri, Dare forma alle emozioni.
E solo Perpignani, allievo di Orson Welles, collaboratore delle prime opere di Bertolucci e di quelle più significative dei fratelli Taviani, poteva condurre questo viaggio dentro il pianeta-montaggio e la sua miriade di valori e di modalità di applicazione nell’universo in fieri dell’audiovisivo mantenendo un miracoloso, delicato equilibrio tra l’aspetto teorico, concettuale e filosofico e l’innesto di una una sensibilità personale, di un’emotività vibrante che lo porta talvolta a sconfinare da un discorso per proiettare i suoi desideri, le sue speranze e i suoi sogni sulle infinite possibilità ancora inesplorate in particolare della nuova frontiera del cinema digitale. Il sottotitolo del libro, Il montaggio cinematografico tra passato e futuro, stabilisce il punto di congiuntura nel quale il cinema si trova a vivere tra pratiche e modalità codificate e stabilite da una convenzione comune e condivisa che porta a considerare il montaggio come uno strumento per ottenere il maggior effetto di verosimiglianza possibile e, di conseguenza, per veicolare significati riconoscibili, essenziali e fondamentali e allo stesso tempo, con l’ormai dilagante avvento del linguaggio digitale, nuovi stimoli per l’apertura di discorsi altenativi sull’intervento e sulla manipolazione della realtà, sul suo non prenderne in considerazione solo l’aspetto epidermicamente materiale e fattuale, ma anche le prospettive di scavalcamento dei modelli pre-definiti, gli schematismi, arrivando a una interpretazione della realtà dove la suggestione emotiva svincoli chi guarda e riproduce da uno sterile tentativo di ricostruzione mimetica.
Questo è uno dei punti fondamentali su cui si basa tanto la disquisizione teorica che l’esperienza concreta riportata da Perpignani, la costante tensione ad esprimere di ciò che percepiamo come reale il senso profondo (e la sua definizione di montaggio è quella di Cuore profondo non solo dell’essenza del linguaggio cinematografico, ma proprio della natura elaborativa del pensiero), nascosto, non apparente, ma neanche condizionato, manipolato, in un certo senso traditore del valore autentico di una data realtà. Oltre che profondo potremmo definire quel cuore immaginifico, dotato di una valenza fantasmogorica, costruttiva, che il montaggio deve far emergere come senso definitivo, sintetico delle istanze della materia e di quelle dell’astrazione, così che il cosa e il come di cui si sta parlando risultino chiari e non soggetti a incomprensioni.
Usando intelligentemente la metafora biblica della Torre di Babele, Perpignani ne rovescia il significato e osserva sconfortato come questa tendenza ‘all’effetto del vero’ ci porti a parlare la stessa lingua, senza capirsi più, a causa di un appiattimento dell’immaginario su una sbiadita necessità di ritrovare nelle immagini il più ovvio e riconoscibile dei significati, anche per l’invadenza di una quantità di stimoli visivi provenienti dall’audiovisivo, non solo il cinema ma anche la televisione. La riflessione diventa sconfortata quando Perpignani constata con lucidità e un pizzico di delusione una sorta di impossibilità, di proverbiale incapacità dell’uomo e della sua forma mentis di trovare una sintesi tra la multiplicità dei punti di vista, dei bisogni, delle urgenze di conoscere che si sono succedute, accavalate, sovrapposte nel corso della storia senza riuscire a produrre un senso unico della realtà, ma la sua percezione frammentata, distorta, schizofrenica e che impedisce la possibiltà di dare alle immagini una struttura coerente, ordinata, un percorso di conoscenza e non un allontamento da essa in uno sparpagliamento di energie creative e intellettuali.
E ancora una volta Perpignani si affida alla cultura classica, paragonando l’enorme calderone di immagini da cui siamo aggrediti ai mali contenuti nel vaso che Zeus affidò a Pandora, ordinandole di preservarlo affinchè non invadesse il mondo. L’apertura del vaso da parte di Pandora, ci suggerisce l’autore, sta proprio a indicare quel tradimento dell’immagine abbandonata a sè stessa, decontestualizzata e ri-prodotta al di fuori della forza ordinatrice del montaggio, felicemente messo in relazione con il logos della cultura greca.
Tutto questo articolato discorso intellettuale è supportato da un pudico e sommesso mettersi in gioco, un guardarsi allo specchio come essere umano che ha trovato nell’esperienza del montaggio l’espressione più completa per pensare e sentire, aggiungendo interesse e curiosità nel racconto delle prime collaborazioni come assistente giovane per un Orson Welles ormai esiliato in Europa, descritto come un umanissimo despota al quale il giovane Perpignani, dopo aver risolto i problemi di missaggio di una sequenza particolarmente complicata de Il processo, si tolse la soddisfazione di poter dire "Stavolta ho dovuro pensare!" , contraddicendo l’interdetto maestro-padrone che l’aveva educato come esecutore di indicazioni, mortificando in ogni occasione il suo istinto a essere individuo pensante oltrechè montatore diligente.
La coincidenza tra individuo e montatore è descritta con maggiore incisività in un altro punto del libro in cui vengono riportate le dichiarazioni di Bertolucci sullo stesso Perpignani in confronto con un altro grande del montaggio, Nino Baragli. Costui veniva considerato come un ‘aggressore’ del materiale impresso sulla pellicola cinematografica, che modella il filmato secondo il volere del pensiero già espresso e formulato su di esso, mentre Roberto Perpignani è descritto come qualcuno che si lascia invadere dal materiale, ricavando da questa possessione la direzione intrinseca che una sequenza deve intraprendere per poter produrre senso.
Lo stesso stile di scrittura di Perpignani conferma la teoria dell’invasimento, in quanto, paragonato ad altri libri di critica, la passione per il montaggio si impone gradualmente come la passione amorosa di una persona piena di pudore e delicatezza, che si lascia prendere la mano e racconta della sua indole creativa, lasciando intuire la grandezza di questo amore tra righe dense di analisi pacatamente razionali. E la parte finale, in cui il futuro prende il sopravvento sul ricordo del passato personale, ‘l’invasato’ sognatore Perpignani preconizza la necessità di un’evoluzione, un arricchimento e un aggiornamento delle scuole di montaggio in Italia, in modo da non trovarsi impreparati e inedeguati alla capacità di conoscere e comprendere la nostra realtà materiale e spirituale con i mezzi specifici dei linguaggi audiovisivi.
Per chiudere con la citata frase loseyana potremmo dire che, conquistato il passato o conquistati dal passato, ciò che era straniero è diventato familiare, vicino, attuale. Solo l’immaginazione potrà allargare la frontiera del ripensamento della realtà, annullare il passato nel futuro e viceversa, accrescendo sempre più la capacità di dare senso e forma a ciò che vediamo dentro e fuori noi stessi.
Autore: Roberto Perpignani
Titolo: Dare forma alle emozioni. Il montaggio cinematografico tra passato e futuro
Editore: Falsopiano
Collana: Cinema
Dati: 297 pagine; copertina morbida
Prezzo: 13,00 €